Sarà la volta buona? L’atteso giro di clessidra delle sorti della cultura in Italia? Quella che non produce e riproduce altro che se stessa? La miccia per iniziare una rivolta dall’interno delle istituzioni accademiche contro la loro attuale crisi terminale? Sarà una svolta che finalmente non serva a ricalcare la antica ovazione “Il Re è morto, viva il Re”? A ricalcare la automatica formula d’uso che la corte pronunciava alla morte di un Sovrano per diritto divino?  Sino a ora, seppure in forme assai deboli se non ridicole, la corte di politici, funzionari e accademici ha finito per peccare della stessa presunzione, dello stesso atto di sacra investitura, salutando ogni sua riforma universitaria, fatta con pochi e mal spesi spiccioli di risorse economiche, nella vuota certezza di un passaggio delle funzioni della ricerca e della formazione a vita nuova, come oggi senza sapere si dice a “nuova epoca”. “L’Università è morta viva l’Università”, ci hanno detto, usando qualche pezzo di università dei loro padri e nonni, per ridare ancora e ancora una vita apparente al loro togato Frankenstein.

Pochissimi giorni fa è uscito un appello ai docenti e ricercatori dell’Università italiana (https://www.roars.it/online/disintossichiamoci-un-appello-per-ripensare-le-politiche-della-conoscenza/) di cui Davide Borrelli e Valeria Pinto, molto attivi in questa fase costituente della rivolta, mi avevano anticipato i termini e le ragioni: «Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine. I dispositivi di misurazione delle performance e valutazione premiale convertono la ricerca scientifica (il chiedere per sapere) nella ricerca di vantaggi competitivi (il chiedere per ottenere), giungendo a mettere a rischio il senso e il ruolo del sapere per la società.

Sempre più spesso oggi si scrive e si fa ricerca per raggiungere una soglia di produttività piuttosto che per aggiungere una conoscenza all’umanità». E a questo aggiungevano una massima raccolta tra i molti (abbastanza molti) che anche all’estero la pensano allo stesso modo: «Mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi». In questo modo la ricerca si condanna fatalmente all’irrilevanza, dissipando il riconoscimento sociale di cui finora ha goduto (o avrebbe dovuto godere davvero?) e generando una profonda crisi di fiducia. Per concludere: «La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale».

Finalmente una rivolta insorta tra un gruppo di docenti (attenzione: tanti, sorprendentemente cresciuti da duecento rapidamente a mille, ma relativamente pochi se due anni fa, secondo una proiezione effettuata da Roars (Return on Academic Research) i docenti universitari in Italia, erano intorno ai 45mila. Senza contare la grande bolla che li contiene e che proprio loro, i reclutati, sono obbligati a sostenere in virtù dei dispositivi automatici della burocrazia, dello Stato, dei governi e delle loro politiche. Obbligati a sottoscrivere le decisioni di ogni loro rappresentanza istituzionale e amministrativa, spesso occulta quanto potente, tremendamente attiva nella sua apparente (e sostanziale) passività. O naturale inerzia (“Lo splendido isolamento della Università italiana”, questo il titolo di un recente rapporto, a firma tra gli altri di Andrea Ichino: http://www.andreaichino.it/wp-content/uploads/2019/02/gipp_declino_18.pdf.).

Ma ormai tra i vari firmatari dell’appello vi sono anche autorevoli docenti, scrittori di spicco, come ad esempio Antonio Scurati, che sul sito del Corriere.it s’è schierato apertamente contro le condizioni in cui da tempo vede precipitare se stesso, colleghi e studenti, dentro una finzione e anzi farsa di vita culturale: «Questo è uno di quegli articoli che di solito non legge nessuno. Tratta, infatti, della crisi dell’università, una delle istituzioni cruciali per il futuro della nazione italiana, della quale, però, sembra non importare a nessuno. Ebbene, se il futuro del nostro Paese ancora vi sta a cuore, sappiate che secondo molti professori l’università italiana sta morendo (secondo altri sarebbe già morta)».