L'intervista
Scuola, Ernesto Galli della Loggia: “La storia va insegnata con un modello trasmissivo, l’attenzione al presente non ha senso per una materia del genere”
“Abbiamo reso semplici indicazioni scritte in modo oscuro, mettendo al centro la storia italiana ed europea”

«Abbiamo fatto prima di tutto un esercizio di chiarezza e semplificazione del linguaggio». Il professor Ernesto Galli della Loggia introduce così una conversazione sul metodo operativo di una delle commissioni per le Indicazioni nazionali, quella sulla storia, da lui coordinata. Il Ministro Giuseppe Valditara, in un’intervista al Giornale dei giorni scorsi, ne ha anticipato alcune novità relative alla scuola primaria e secondaria di primo grado, scatenando le prevedibili critiche delle opposizioni, ma raccogliendo un certo favore, seppur con qualche riserva, nel mondo intellettuale italiano.
Professore, non erano molto chiare le precedenti indicazioni?
«Quelle indicazioni ci sono sembrate scritte spesso in modo ridondante e ripetitivo, costellate da formulazioni spesso inutilmente astruse, con un linguaggio oscuro, e per questo abbiamo cercato un linguaggio più semplice ed essenziale. Siamo stati dunque più brevi nella stesura delle parti in cui si descrivono finalità, abilità e competenze, senza esercizi retorici, impegnandoci a fornire agli insegnanti indicazioni precise sugli argomenti, su alcuni tracciati potenziali da seguire, naturalmente non vincolanti e rispettosi della loro autonomia didattica».
Insomma, c’è più chiarezza sui contenuti. Quali, in particolare?
«Abbiamo cercato di dare più spazio, nei limiti del ragionevole, alla storia italiana e ai suoi legami con la storia europea. Abbiamo voluto altresì porre attenzione al rapporto tra la storia d’Italia e il passato greco-latino, o, per esempio, al profondo legame tra la storia dell’Italia risorgimentale e il contesto europeo del tempo».
Cosa significa, in concreto, connettere la storia italiana a quella del mondo greco-latino? Le assicuro che molti insegnanti se lo chiederanno…
«Provo a fare un esempio. L’Italia, in epoca romana, aveva all’incirca 900 centri urbani, caso unico in Europa e forse nel mondo. Non crede che questo spieghi molte cose di tutte le vicende successive della Penisola, del localismo italiano e della difficoltà a costruire uno stato unitario? O ancora, la centuriazione dei campi nella pianura padana, ancora esistente, che tanto ha influito sull’agricoltura di quei luoghi, non è forse risalente all’epoca romana e alle distribuzioni di terre ai reduci delle legioni?».
Le opposizioni politiche temono che si vogliano riportare indietro le lancette della storia, difendendo un’idea di scuola passatista e identitaria. In che senso, invece, ritenete di aver apportato elementi nuovi, cioè più rispondenti alle esigenze dell’oggi?
«L’attenzione quasi ossessiva al presente è una delle cifre retoriche che più hanno dominato, dannosamente, la pedagogia italiana. Che cosa significa “attenzione al presente” rispetto a una materia come la storia? Potrei capirlo per le materie scientifiche o tecniche, ma rispetto allo studio della storia non ha alcun senso».
Può significare pensare a una narrazione più globale, con uno sguardo rivolto al mondo…
«Ma mi chiedo: che cosa è il mondo, se non un insieme di singoli territori, di regioni, di Paesi, ognuno con le sue specifiche vicende? Dovremmo forse studiarle tutte? Sarebbe certo utile e interessante, oltre alla storia dell’Italia e dell’Europa, studiare anche la storia della Cina e quella dell’India, dell’Australia, del Brasile, ma potremmo mai farlo senza doverci accontentare di poche notizie alla fine insignificanti? Studiare significa immergersi nel lavoro, approfondire, e allora, non potendo studiare tutto, non è forse più sensato studiare bene la nostra storia e quella delle aree storico culturali con cui abbiamo avuto un rapporto più profondo, più duraturo, più determinante?».
Sul piano del metodo, come ritiene che i docenti possano trasferire la conoscenza storica?
«In commissione ci siamo ritrovati d’accordo sull’utilità di un modello trasmissivo. La storia richiede capacità di narrazione, che non è una cosa semplice come qualcuno potrebbe pensare, perché bisogna sapere organizzare un discorso in cui ci si esplicitino con chiarezza cause ed effetti. La narrazione storica, inoltre, richiede anche una proprietà dei termini, nei giovani spesso assente. L’uso ampio di strumenti audiovisivi, invece, non ci è sembrato molto opportuno né produttivo di grandi risultati».
C’è stata una qualche matrice intellettuale, pedagogica, alla base del gruppo di lavoro?
«Direi di no, anche perché nella nostra commissione non eravamo tutti di una stessa area di pensiero. Una cosa però ci ha visto tutti d’accordo, l’esperienza: siamo tutti insegnanti. Ci ha orientati la pratica sul campo e l’aver notato che in generale i ragazzi che arrivano all’università non hanno una buona preparazione storica, soprattutto per la grande difficoltà a esprimersi organizzando un discorso storico, capace di connettere i fatti tra loro stabilendo un rapporto di causa/effetto».
Nelle indicazioni c’è però uno spazio rilevante sul ruolo che ha avuto il cristianesimo nel plasmare la storia italiana ed europea.
«Certo, ma sfido chiunque a sostenere che questo ruolo non sia esistito effettivamente o che non abbia avuto per più versi una rilevanza storica decisiva. L’ideologia o la dimensione confessionale non c’entrano».
Ha condiviso la separazione tra storia e geografia?
«È una scelta non nostra, ma del ministro, che però ritengo molto opportuna: l’esperimento della geostoria è stato un totale fallimento, tanto è vero che di fatto pochissimi giovani oggi conoscono la geografia, spesso non sanno neppure le capitali delle regioni italiane. E invece è proprio grazie alla geografia che si comprende meglio la storia».
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