È stupefacente sapere che la storia dell’Occidente è stata segnata da alcuni libri, così come da scoperte geografiche e invenzioni tecnologiche. Uno di questi libri è un poema scandaloso, incendiario, sovversivo dell’antichità, riscoperto nel Rinascimento: De rerum natura di Lucrezio. La storia della riscoperta è raccontata in uno splendido saggio di Stephen Greenblatt, fondatore del New Historicism (che studia la storia culturale attraverso la letteratura), da noi pubblicato nel 2012, Il manoscritto (Rizzoli). Qui siamo in presenza di un ritrovamento triplo: ho trovato per caso questo libro in un mercatino, Greenblatt ha trovato a vent’anni il De rerum natura su una bancarella a Yale e a sua volta l’umanista Poggio Bracciolini, ex segretario apostolico e finissimo copista, ha scovato il capolavoro di Lucrezio nella biblioteca di di un’abbazia benedettina tedesca nel 1417. La narrazione che ne fa Greenblatt è più avvincente del Nome della rosa: già nella prima pagina Bracciolini, “cacciatore di libri“, cavalca con il suo cavallo tra le colline e le valli boscose lungo il Danubio, diretto verso monasteri dove reperire qualche manoscritto antico. Non sa una parola di tedesco: con i monaci e gli abati parlerà in latino.

La caccia ai classici perduti era una mania tutta italiana, almeno a partire da Petrarca che aveva ricomposto nel 1330 la Storia di Roma di Tito Livio, e scovato capolavori dimenticati di Cicerone e Properzio. In che senso il poema del “sublime Lucrezio”, che affascinò Ovidio e Virgilio, ha cambiato la storia dell’Occidente? Nelle pagine spesso intricate del De rerum natura – ben sei tomi che illustrano la filosofia di Epicuro attraverso uno stile di straordinaria bellezza lirica – leggiamo tra l’altro che l’universo è composto di materia (atomi e vuoto), che gli dei non ci sono, e se ci sono non si curano di noi, che le religioni sono perlopiù crudeli e fatte di superstizioni, che scopo supremo della vita è il piacere (benché si tratti di piacere moderato, riflessivo: Epicuro viveva di formaggio, pane e acqua), che non siamo unici né centrali nell’universo, che la morte va serenamente accettata poiché occorre rassegnarsi alla transitorietà di tutto (perciò sono ridicoli i «sogni di potere illimitato o di sicurezza assoluta»). Il ritrovamento del manoscritto ebbe un impatto devastante sulla cultura rinascimentale e nei secoli successivi. Greenblatt ripercorre questa vicenda elencando tutti colori che ne vennero influenzati e turbati: da Leonardo e Botticelli a Ariosto e Tasso, da Marsilio Ficino (che se ne innamorò, poi preso dal terrore lo fece bruciare!) a Lorenzo Valla, da Giordano Bruno a Machiavelli, da Montaigne a Shakespeare, da Tommaso Moro a Galileo, e Hume, Voltaire, etc. fino a Einstein.

Ma, sorprendentemente, scopriamo in queste pagine che la Dichiarazione di indipendenza americana, con il celebre «diritto alla ricerca della felicità», è debitrice verso il poema lucreziano, da Jefferson studiato e annotato. C’è un punto soprattutto che collega direttamente il poema alla modernità, e invece confligge con la visione medievale (dantesca): nel mondo non ci sono scopi ma solo creazione e distruzione governate dal caso. Leggendo Greenblatt mi chiedevo se non possiamo non dirci lucreziani. A proposito del suo materialismo assoluto si può anche nutrire qualche dubbio. La scienza ci ha insegnato che nell’infinitamente piccolo ci sono non corpi solidi ma relazioni, centri di forza, che insomma la materia tende a convertirsi in (impalpabile) energia. Mentre sulla centralità del caso, nella storia umana e nella natura, sul rifiuto di ogni antropocentrismo e sulla critica delle illusioni, non potremmo che concordare. Come la mettiamo invece con il libero arbitrio?  Lucrezio pensava che tutto dipende dalla caduta degli atomi (o «semi delle cose»), eterni e invisibili, che deviando dalle loro traiettorie si scontrano ricombinandosi in nuove forme. Dunque siamo tutti trasportati, eterodiretti. In realtà però gli esseri umani possono a loro volta muoversi nello spazio e cambiare direzione. O meglio, come osserva Greenblatt, possiamo secondo Lucrezio «decidere di tirarci indietro». La libertà si esercita dunque essenzialmente come non-agire, non-partecipare, non-esserci. Il vivere nascosti epicureo. Non è la tentazione dell’antipolitica ma il rifiuto di un gioco dagli esiti scontati e, forse, il diritto a una secessione dalla società quando si allontana troppo dalle nostre esigenze.

Filippo La Porta

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