Ma i poveri, che il dibattito ombelicale de sinistra eleva a destinatari della cura riformista, sono poveri perché? L’idea, archeologicamente impiantata nelle convinzioni dichiarate in quel milieu (quelle dichiarate, perché una diffusa malafede copre quelle vere, che sono opposte), vuole ancora che i poveri siano poveri perché la ricchezza altrui li fa tali, e perché c’è un sistema fatto apposta per proteggere e rendere irrevocabile quella differenza di stato.

All’ingiustizia di questo equilibrio, per questa raffinatissima impostazione, si pone rimedio con il correttivo di un’azione pubblica rivolta a raffrenare l’inevitabile attitudine sopraffattoria dell’egoismo capitalista: quello che impagabilmente deve chiamarsi “neoliberista” nel Paese che fu sempre impeccabilmente liberista secondo il protocollo dei pomodori pelati di Stato, delle identiche corporazioni fasciste riadattate in retorica post 25 aprile, delle pubbliche risorse nella tramoggia delle aziende stracotte che restituivano altruisticamente democratici disservizi e ugualitaria inefficienza escludendo dal gioco l’odiosa insidia del famelico capitale privato. Che in questo bel sistema si sia prodotta qualche notevole povertà è abbastanza indiscutibile, ma è della qualificazione del sistema che bisognerebbe piuttosto discutere: e dell’ipotesi, almeno dell’ipotesi, che a impoverirne i consorziati si sia posto il difetto, non l’eccesso di concorrenza; la limitazione, non la sfrenatezza dell’iniziativa privata; in una parola, il sacrificio, non la premiazione delle libertà individuali in campo economico.

Che le classi più abbienti abbiano partecipato al gioco non destituisce di verità quel fatto, anzi: le posizioni di rendita e di privilegio che oltraggiano la condizione dei più poveri si sono prodotte proprio a causa di un ordinamento economico e del lavoro profondamente ispirato a quel pregiudizio anticapitalistico e antiliberale, e la diffusa e perdurante depressione economica del Paese viene esattamente dai lombi dello Stato che certa rappresentazione di sinistra vuole invece responsabile per omissione, per latitanza, per inerzia di intervento.

Nell’inesausto dibattito sulle faccende della sinistra italiana è sempre mancante l’interrogativo sicario, e cioè se non esista l’ipotesi, nemmeno l’ipotesi, che la responsabilità della sinistra sia un po’ più grave rispetto a quella disponibile al facile riconoscimento, vale a dire di non essersi curata abbastanza della povertà: la responsabilità d’aver partecipato alla costruzione del sistema che l’ha fatta crescere, assolvendosene mentre spacciava la contro-verità di un Paese abbandonato allo stravizio dell’orgia liberista. È sempre mancante questo dubbio, in quel dibattito: se il Paese che la sinistra vuol cambiare non sia almeno in parte il Paese fatto dolosamente dalla sinistra, anziché quello che colposamente la sinistra avrebbe lasciato fare ad altri.