Commoventi le trepidazioni mentre la notizia era bisognosa di conferme. Irrefrenabili i trasalimenti quando era confermata. L’ipotesi che non fossero di Yahya Sinwar le fauci esplorate dall’obiettivo dello smartphone, con quel legno che gli sollevava il labbro superiore e ne scopriva la dentatura color rovere, nutriva la speranza abbastanza estesa che non fosse conchiusa in quel modo la vicenda resistenziale del capo di Hamas. E invece era proprio lui, Sinwar.

“La borsa della moglie di Sinwar” e la “propaganda”

L’uomo che dopo poche ore sarebbe stato ricordato per “la sua forza”, la quale stava “negli occhi attenti e irrequieti, nel portamento controllato da leader consapevole di esserlo” (così un appassionato Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera). Era lui, Sinwar, violentato anche negli affetti e anche da morto dalla comunicazione sionista che indugia sugli oggetti di lusso della consorte (“La borsa della moglie di Sinwar entra nel frullatore della propaganda”, titolerà la Repubblica). Era lui, il capo dell’organizzazione che non si può liquidare semplicemente come terroristica – perché amministra anche uffici pubblici e ospedali e scuole, e insomma fa anche qualcosa di buono – era lui l’uomo che Israele ha ucciso “rendendolo un martire agli occhi di milioni di persone” (così, con sensibilità per le masse deprivate del fortissimo punto di riferimento, il Tg3).

I media e l’apologia di un macellaio

Lui, Sinwar, quello che Israele, diffondendo un video che lo riprende mentre razzola in un tunnel (“video-provocazione” lo definirà il Messaggero) mette alla berlina nel tentativo “di screditarne l’immagine” (sempre il Tg3, testuale, prima della rimozione del poema composto nel comprensibile ardore del momento). Non senza che i patimenti del servizio pubblico radiotelevisivo ricevessero la dovuta attenzione solidale dell’informazione alta, come HuffPost, solerte nel denunciare le “furiose polemiche” scatenate da quei messaggi sui social della Rai, meritevoli di notizia non perché facevano apologia di un macellaio ma perché alcuni sconsiderati hanno creduto di commentarli con qualche incomprensibile intemperanza.
Inutile precisare che una ragione essenziale, originaria, è posta a spiegare un simile atteggiamento di sostanziale simpatia umana per il massacratore eliminato (e di riprovazione per chi l’ha reso incapace di nuocere ulteriormente).

Ed è la solita, che più o meno oscuramente lavora alla confezione di certi spropositi: vale a dire che la ferocia, la militanza genocidiaria, il culto della morte di cui può dar prova un personaggio simile sono poca cosa a fronte della colpa ben più grave e maestosa della forza usurpatrice che egli combatte.
Occorre ricordarlo: i massacri, gli sgozzamenti, gli stupri, le decapitazioni, i rapimenti di donne, uomini, bambini organizzati e perpetrati il 7 ottobre dalle belve agli ordini di Yahya Sinwar non venivano dal nulla.