L’abbiamo visto anche ieri, in un’inchiesta che riguardava la Sicilia. E prima ancora in Puglia e poi in Piemonte. Le immagini che ci rimandano le tv hanno una volta il timbro dei carabinieri, un’altra quello della guardia di finanza. Sono sempre le stesse, auto che corrono a sirene spiegate, “malviventi” che escono dai “covi” con i polsi in manette. Il blitz è servito per il voyeurismo collettivo.

Poi la voce del cronista dice che dalle carte dell’inchiesta “spunta” il nome del politico. Non importa che sia indagato, ma quando lo è, provvede il procuratore nella conferenza stampa a spiegare, attorniato dalle alte uniformi dei diversi corpi dello Stato, che esiste una “zona grigia” che mette in contatto le mafie e le varie organizzazioni criminali con il mondo della società civile. Il politico è la cerniera. La gogna è sicura. La faccia sporca del processo mediatico.

Ma che cosa vuol dire esattamente il fatto che il nome “spunta” dalle carte dell’inchiesta? Significa prima di tutto che qualcuno, il giornalista, detiene, spesso illecitamente, gli atti di un’inchiesta giudiziaria che è ancora agli inizi e in cui le persone indagate sono innocenti, come dice l’articolo 27 della Costituzione. Ma vuol dire anche che quelle carte qualcuno le ha diffuse. Per esempio coloro che sono i custodi naturali dei documenti, come la polizia giudiziaria e il pubblico ministero.

Ma in che modo quel nome è sbucato fuori? Dall’abitudine, ormai consolidata, di allegare all’ordinanza di custodia cautelare stilata dal gip un bel pacchetto di intercettazioni. Il nome “spunta” come un fiorellino di prato, e una volta che è colto non c’è più niente da fare, non lo si può riattaccare. Ormai è sulla bocca di tutti. Ed è sempre pubblicità negativa. Indimenticabile quel che accadde tempo fa in Liguria, in un’inchiesta in cui, forse per rendere la notizia delle indagini più appetibile e succulenta al voyeurismo dell’opinione pubblica, si parlava di “festini”, “escort” e droghe varie.

E a uno di questi incontri piccanti avrebbe partecipato, secondo una testimonianza, anche un politico locale. Estraneo all’inchiesta, come sarà appurato nei giorni seguenti. Quel signore aveva anche la fortuna di avere un “alibi”. Non necessario poiché non era indagato. Ma un giudice si era preso la libertà di inserire il suo nome nelle carte, poi qualcuno le aveva diffuse e altri avevano pubblicato il suo nome, nonostante le smentite del malcapitato. E il sospetto resterà.

Benvenuti nel processo-spettacolo. In cui esistono solo colpevoli non ancora scoperti e cittadini in attesa di giudizio già trascinati sul palcoscenico delle tricoteuses, che sferruzzano nella grande aula del tribunale del popolo. Per il quale il processo è una sorta di ente inutile. E davanti a ogni sentenza di assoluzione, ma anche di condanna che sia inferiore alle aspettative, è pronto a gridare che è una vergogna e che non è stata fatta giustizia e infine che tizio è stato “ucciso due volte”. E si capisce che la sentenza sgradita è considerata più grave dello stesso delitto. Ma non c’è solo desiderio di punizione esemplare.

C’è il bisogno di trasformare l’inchiesta giudiziaria in dispensatrice di disapprovazione morale. Così il binomio colpevole-innocente si va trasformando in puro-impuro. Il magistrato diventa colui che dà giudizi morali sui comportamenti. Si fa sacerdote supremo. E poi sociologo e storiografo.

Un caso clamoroso è capitato nei due anni in cui l’Italia e il mondo intero si sono trovati a dover affrontare un nemico insidioso e sconosciuto che si chiamava covid-19. I morti, le bare esposte in tv, l’angoscia hanno travolto un po’ tutti. E ancora oggi, con i processi finiti nel nulla cui erano destinati, un’assurda volontà vendicativa insegue, anche in senso fisico, l’incolpevole ex ministro della salute Roberto Speranza per le strade di Roma al grido di “assassino”. Mai come in quei giorni del covid il processo si è fatto spettacolo e gogna politica. E mai come in quell’occasione, soprattutto nella città di Bergamo, particolarmente colpita dall’epidemia, si è assistito alla nascita di comitati di parenti assurti alla dignità di soggetti politici. I morti sono diventati “vittime”, e poi da vittime a “eroi”.

Tutti coloro, dal premier al ministro, fino al presidente della regione, all’assessore e agli stessi medici, che non li hanno saputi salvare, sono colpevoli. Nei palazzi di giustizia si è anche trovato il reato, epidemia colposa. Cioè un reato impossibile, perché quello dell’untore non può essere che un ruolo attivo e doloso. Ma un contagio è avvenuto in quei giorni, perché la società etica si è a un certo punto trasferita in tribunale.

Quasi come se l’ossessiva ricerca della “verità”, che non è comunque il compito del giudice, dovesse portare alla scoperta di violazioni di un qualche codice morale. E la contaminazione etica ha finito per coinvolgere lo stesso procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, che non solo ha raccolto il grido di dolore che si era trasformato in bisogno di punire da parte del tribunale del popolo, ma ha allargato il fine dell’indagine a scopi indebiti. Il procuratore infatti dichiarerà ripetutamente di sentire la necessità di “dare una risposta” ai cittadini. Come se fosse suo compito. E si spingerà fino a dare una singolare rassicurazione: “Il materiale raccolto servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”.

Se questa dichiarazione, sicuramente ingenua ma anche sintomo di una cultura, dovesse essere estesa e generalizzata ad altre inchieste, se ne dovrebbe dedurre che non sempre si aprono fascicoli per cercare i responsabili dei reati. Ma anche che a volte i reati li si va a cercare. E che l’intervento punitivo può diventare totale, se viene esteso a ogni comportamento, a ogni settore della vita sociale e individuale. Esiste un rischio ancora maggiore in quel fenomeno che viene definito come la ricerca del “tipo d’autore”.

Per cui, una volta individuata la caratteristica del potenziale colpevole, mafioso, terrorista, ma anche politico o sindaco, si va alla ricerca dei possibili reati a suo carico. Quando non ci sono, e in politica è spesso così. Ma lo si saprà troppo tardi. In un vecchio racconto di Friedrich Dürrenmatt, “La Panne”, ricordato anche ieri mattina sulla Stampa da Mattia Feltri, un viandante con l’auto in panne si ritrova a essere ospitato da un giudice in pensione che, in compagnia di altri tre amici come lui ormai a riposo, un pm, un avvocato e un boia, gli propone un gioco crudele che consisterà nel ricercare e poi trovare una qualche colpa nella sua specchiata vita. Il viandante finirà con l’impiccarsi. Uno specchio tragico ma molto attuale di quel che accade, quando si muore di ingiustizia come Enzo Tortora. Ma che potrebbe accadere se mettessimo sul piatto della bilancia anche il prezzo della gogna, la faccia sporca del processo mediatico e della giustizia etica.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.