È difficile che un paese come l’Italia riesca a vivere di un’improbabile rendita basata sui successi industriali passati, ad esempio nel settore automobilistico, anche se può capitare che un paese abbia un prodotto nazionale lordo (Pnl) largamente superiore al proprio prodotto interno lordo (Pil): senza annoiare il lettore con un eccesso di contabilità macroeconomica, il Pnl include il reddito che arriva a soggetti italiani anche da imprese controllate che sono attive all’estero, mentre il Pil include altresì il reddito prodotto in Italia da parte di imprese che sono residenti all’estero. Tanto per intenderci: se una società automobilistica italiana possiede società che fanno produzione all’estero, possiamo lamentarci degli andamenti occupazionali in Italia ma comunque quella società ottiene redditi provenienti da queste produzioni effettuate altrove. D’altro canto, sotto il profilo della produzione e dell’occupazione interne, dovremmo in qualche misura rallegrarci se società straniere decidono di fare investimenti diretti nel nostro territorio.

Lo sviluppo economico e industriale dovrebbe essere sempre al centro del dibattito politico e mediatico, ma vi sono ragioni ancora più stringenti perché lo sia quando ci confrontiamo con una situazione in cui una delle poche multinazionali di origine italiana, cioè Stellantis –nata dall’aggregazione della FIAT con Chrysler, e poi con il gruppo francese Peugeot-, annuncia incentivi all’uscita per 3600 dipendenti, cioè più dell’8 percento degli occupati sul territorio nazionale. Come ben ricordato da un pezzo di Ala e Sileo su lavoce.info, le scelte occupazionali di Stellantis mal si conciliano con l’obiettivo discusso lo scorso anno dall’amministratore delegato Tavares con il ministro Urso- di riportare la produzione italiana di autoveicoli verso il milione annuo, quando nel 2023 tale produzione si aggirava intorno alle 750mila unità prodotte, cioè di un terzo inferiore all’obiettivo di cui sopra.

Se la storia è maestra di vita, a maggior ragione la storia economica delle aziende ci insegna a valutare le traiettorie future di successo e insuccesso sulla base degli andamenti precedenti di quella stessa azienda. Nel caso di Fiat/FCA sono letture d’obbligo, il racconto autobiografico di Giorgio Garuzzo, già direttore di IVECO e del gruppo FIAT (“I segreti di un’epoca”) e la commovente/avvincente biografia di Sergio Marchionne scritta da Tommaso Ebhardt: la forza persuasiva di questi libri sta nel evidenziare innanzi tutto la necessità per un’azienda automobilistica come FIAT di specializzarsi nei segmenti produttivi a più elevati margini: ad esempio, il segmento C della Volkswagen Golf è sempre stato un difficile terreno per FIAT, rispetto ai meno lucrosi segmenti A e B dove erano collocati la Fiat Panda e la famosa Fiat Uno dei tempi di Ghidella, mentre la RAM e la Jeep hanno fruttato margini considerevoli a FCA dopo l’acquisizione di Chrysler da parte di FIAT.

In secondo luogo, la dimensione globale della domanda di autoveicoli è tale per cui si doveva arrivare a una drastica concentrazione tra i produttori, che nel caso di FIAT è stata realizzata con la doppia operazione che ha portato prima alla creazione di FCA e poi di Stellantis. Come ogni operazione economica, è raro trovarsi di fronte a un cosiddetto miglioramento paretiano, cioè a una situazione nuova in cui qualcuno ottiene un vantaggio e nessuno soffre uno svantaggio: l’Italia ha mantenuto una multinazionale rilevante nel settore (più di 6 milioni di veicoli venduti) ma nel contempo il baricentro legale e industriale della società si è spostato in maniera pressoché inevitabile verso l’estero. Quanti dei giovani sanno che dentro Stellantis (o meglio: dentro i marchi da essa controllati) c’è una società originaria il cui acronimo FIAT sta per Fabbrica Italiana Automobili Torino?

Quando si ragiona sui livelli produttivi e occupazionali in Italia nel settore automobilistico non si può che focalizzarsi su Stellantis, dato che la produzione di Maserati e Ferrari –pur incentrata su segmenti a margini elevati- è residuale rispetto alla produzione della prima. Tornando al discorso relativo al confronto tra prodotto nazionale e prodotto interno lordo, non vi è nessuna ragione stringente per cui i livelli produttivi desiderati dal governo non possano essere integrati grazie all’arrivo di produttori stranieri, anche se ciò non necessariamente è coerente con le radici ideologiche del partito di maggioranza relativa, cioè Fratelli d’Italia. D’altra parte il presidente del consiglio Meloni –intervistata giovedì da Bruno Vespa– ha ben sottolineato come la produzione e l’occupazione dipendano largamente dalle scelte e dal successo delle imprese private, per cui anche in questo caso incrementi produttivi ed occupazionali possono comunque provenire da imprese straniere.

Perché mai la concorrenza dovrebbe essere una forza da combattere invece che da valutare positivamente a motivo della sua capacità di incentivare una produzione più efficiente? Ancora una volta la storia economica del paese può fornire insegnamenti utili, questa volta in negativo: siamo del tutto sicuri che fu un’idea dirigistica intelligente negli anni ’80 del secolo scorso fare in modo che Alfa Romeo venisse acquistata da FIAT, anche grazie all’opposizione da parte dei governi dell’epoca a un acquisto alternativo da parte della società americana Ford (2,4 miliardi di dollari offerti nel 1986 all’IRI)? Parafrasando la famosa frase di Deng Xiaoping, non importa se il gatto sia italiano o straniero, l’importante è che acchiappi i topi.

E se nel tempo andato un gatto Fiat e un gatto Ford/Alfa Romeo potevano migliorare l’acchiappamento complessivo di topi (produzione e occupazione nel settore automobilistico in Italia), qualcosa di simile si potrebbe percorrere oggi in Italia, tenendo però ben presente un problema strutturale e di politica economica ben più ponderoso: l’ossessione europea per le auto esclusivamente elettriche assomiglia tremendamente a un obbligo di utilizzare elefanti -invece che gatti- per catturare topi.
Chi le compra queste macchine dal costo sontuosamente elefantesco?