L’ultimo caso è recente, più di quanto non ci immaginerebbe: Morituris, di Raffaele Picchio, sarebbe dovuto approdare nelle sale cinematografiche il 19 novembre 2012. Non ci arrivò mai. La Commissione di revisione cinematografica, istituita con la legge del 1962, considerò la pellicola «un saggio di perversità e sadismo gratuiti» e ne vietò la diffusione. Da ieri, grazie al decreto del ministro Franceschini, non potrebbe più succedere. Negli ultimi decenni non era in effetti capitato quasi mai che fosse proibita la diffusione di un film nei cinema o in tv. Ma l’eventualità era possibile, come il caso del film di Picchio dimostra, e la decisione di Franceschini mantiene un certo valore simbolico, anche se interviene su una realtà già spenta, lontana anni luce dall’antico splendore della censura italiana in materia di cinema.

La sforbiciata, più o meno drastica, è antica quanto il cinematografo o quasi. A introdurla ufficialmente fu un Regio decreto del 1920, il fascismo ereditò e rimpinguò. La Repubblica garantì nella Carta, all’art. 21, il diritto alla libertà d’espressione ma considerò le buie sale cinematografiche territorio franco. Non solo lasciò in vigore le regole precedenti ma le rimpinguò con l’aggiunta, invocata dalla Chiesa, del divieto di «manifestazioni contrarie al buoncostume». Gli interventi con le forbici, nella storia repubblicana, si contano a centinaia, forse a migliaia, non tanto con il divieto assoluto di uscita nelle sale e/o sul piccolo schermo quanto con i “tagli parziali”, tesi ad emendare le pellicole dai passaggi più scabrosi. Come il passaggio di una copia dell’Unità dalle mani empie di un sindaco comunista a quelle santificate di un sacerdote, per tacere dei i costumi succinti, in La spiaggia di Lattuada nel 1954. O come il leggendario Totò e Carolina di Monicelli, che da solo è un’esaustiva enciclopedia delle maniacali idiosincrasie dell’epoca.

I censori, e prima di loro il presidente del consiglio Mario Scelba, saltarono sula sedia quando videro un camion pieno di operai che cantavano Bandiera rossa (rimpiazzata con un patriottico Di qua e di là dal Piave), ma anche quando dovettero subìre i continui riferimenti alla immorale condizione della protagonista, una ragazza madre, gli offensivi riferimenti satirici alle forze dell’ordine, interpretando Totò appunto un agente di polizia, persino un’allusione al suicidio. I tagli furono da altissima macelleria: 31 scene, 200 metri di pellicola. Andò peggio a Le avventure di Giacomo Casanova, veneziano, di Steno. Preso di mira con foga degna di Bernardo Gui dal sottosegretario con delega allo Spettacolo e futuro presidente della Repubblica Scalfaro, il vero “grande inquisitore” italiano, fu ritirato dalle sale nel 1954 e “rilasciato” solo dopo essere stato mondato di ben 500 metri di pellicola e con l’aggiunta di sei sequenze edificanti.

Il ritiro totale di un film dalle sale è scattato solo in una quindicina di occasioni e il primo a essere colpito tanto duramente non fu un regista italiano sospetto di mire sovversive o di impudiche allusioni ma il Maestro Alfred Hitchcock, nel 1949, per Nodo alla gola. Quell’omicidio per gioco commesso da due studenti affetti da malinteso superomismo, oltretutto facilmente identificabili come omosessuali, sembrò un esempio pericoloso ai sorveglianti italiani. Negarono il nulla osta, salvo concederlo 7 anni dopo ma a patto che il doppiaggio stravolgesse il senso stesso del film, rendendolo oltre tutto quasi incomprensibile. Di quelle 15 pellicole maledette quasi tutte sono poi arrivate o tornate in un modo o nell’altro sugli schermi o sui teleschermi, anche la più maledetta di tutte, quell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci nonostante la Cassazione, dopo 3 anni di tira e molla giudiziari, avesse ordinato la distruzione totale dei negativi. Qualche copia, inclusa quella in possesso del regista condannato a 4 mesi di detenzione e 5 anni di sospensione dai diritti politici, sopravvisse al rogo. Quando, 11 anni dopo, il capolavoro di Bertolucci fu riabilitato poté così ricomparire in forma integrale.

Il Tango di Marlon e Maria Schneider non era la prima pellicola condannata a bruciare in infernale fiammata. Nel 1963 la stessa sorte era stata decretata per il documentario di Giuliano Montaldo, Elio Petri e Giulio Questi, con lo pseudonimo collettivo “Elio Montesti”, Nudi per vivere. Non lo ha visto quasi nessuno ma una copia è stata ritrovata fortunosamente negli archivi della Cineteca nazionale. Persino il massacratissimo Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, del 1980, alla fine è uscito in versione integrale dvd dopo essere stato fatto a pezzi prima che fosse concesso il nulla osta dopo un tempestivo ritiro. Va detto che il film un po’ estremo lo è davvero: censurato in 50 Paesi detiene il record mondiale in materia. Nulla o quasi da fare, invece, per un kolossal che di scabroso o efferato non ha niente, Il leone del deserto, la produzione più ambiziosa e costosa mai realizzata in Libia. Solo che lì la parte dei cattivi la facevano gli italiani invasori e l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti fu irremovibile: «Danneggia l’onore dell’esercito italiano». Mai proiettato, è stato trasmesso una sola volta, da Sky, in occasione della visita di Gheddafi a Roma.

Nella storia della censura repubblicana Andreotti occupa una postazione centralissima. Fu lui, giovane sottosegretario con delega allo Spettacolo, a ideare la formula che avrebbe permesso di prevenire invece che reprimere. La sua legge, che di fatto introduceva una sorta di censura preventiva, non fu affatto solo esecrabile. Pensata per sostenere il cinema italiano schiacciato da Hollywood garantiva massicci e preziosi, anzi indispensabili sostegni pubblici. Però solo alle sceneggiature approvate dalla Commissione ministeriale. A quelle bocciate veniva inoltre negata la licenza di esportazione. Gli interventi sui copioni furono numerosissimi. Le aree critiche erano sei: buon costume, moralità, ordine pubblico, violenza, rapporti internazionali e il più importante di tutti, quello sul quale la vigilanza era più maniacale, la «reputazione nazionale». Andreotti, padre della legge, andò giù pesante ma non troppo. Il successore, Scalfaro, ci mise ben altra foga.

L’estate della censura iniziò a declinare con la legge del 1962 che di fatto abolì la censura preventiva, concentrò gli strali sul “buon costume” e delegò la magistratura a intervenire non più in fase di produzione ma con lo strumento del sequestro della pellicola. Anche in questo caso qualche inquisitore si distinse, più occhiuto e baldanzoso dei colleghi. La palma se la conquistò il procuratore di Roma Carmelo Spagnuolo, che peraltro si era già messo in sinistra luce sin dal 1960, con la vera e propria crociata contro Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.

Fatti salvi gli ultimi fuochi, come il sequestro di Morituris, l’epopea drammatica e grottesca della censura italiana era già finita da un pezzo, conclusa come in un pirotecnico fuoco d’artificio finale dall’assurdo ritiro dalla circolazione per una ventina d’anni di W la foca, dovuto solo alle allusioni indotte dal titolo. Dario Franceschini si è limitato a calare la censura cinematografica nella fossa, sovrastata dalla lapide dove campeggerà la frase storica pronunciata dal Divo Giulio all’atto di giustificare i suoi tagli e i suoi divieti: «I panni sporchi si lavano in famiglia».