Il 30 settembre del 1996 il titolare d’una piccola impresa di costruzioni, Nino Polifroni, dopo aver subito innumerevoli intimidazioni ed attentati, vene ucciso a Varapodio, Reggio calabria, dalla ‘ndrangheta. Gli assassini sono rimasti sconosciuti. Polifroni aveva più volte denunciato i mafiosi. Viveva senza scorta. Dopo la sua morte e dopo una approfondita istruttoria da parte degli organi competenti, la vittima è inserita nell’elenco ufficiale delle vittime di mafia. Contemporaneamente i figli Bruno e Vincenzo, entrambi ingegneri, decidono di continuare a lavorare in Calabria nonostante continuino le intimidazioni nei loro confronti.

Nel 2017 i fratelli Polifroni vengono lambiti da una inchiesta giudiziaria per turbativa d’asta. Il processo di primo grado non s’è ancora concluso. Ancor prima del rinvio a giudizio le loro imprese cominciano ad esser colpite da una serie di interdittive antimafia. La conseguenza immediata è che le aziende finiscono in crisi e una trentina di dipendenti finiscono sul lastrico. Inoltre, dopo 24 anni, la prefettura di Reggio Calabria riapre il “caso Polifroni” con la motivazione che vi potrebbe essere «la sussistenza di un dubbio circa l’impossibilità di non escludere con certezza che la vittima (Nino Polifroni) fosse nel momento del fatto estranea a momenti malavitosi». Purtroppo la vittima non si può difendere perché è morta ed i sicari sono rimasti sconosciuti.

In tutta questa vicenda se c’è una cosa certa è che l’imprenditore calabrese ha passato l’intera esistenza a difendersi dalle cosche senza mai abbassare la testa nonostante avvertisse il fiato della ndrangheta sul collo. Quella di Nino Polifroni è la storia di un uomo, che denuncia le potenti cosche calabresi e non indietreggia. Non a caso la sua indomita lotta venne indicata come un esempio di eroismo civile. Non è facile vivere e lavorare in Calabria quando la ‘ndrangheta rende la vita impossibile e quando lo Stato mostra un volto ottusamente burocratico. Bruno e Vincenzo Polifroni sono oggetto d’una inchiesta giudiziaria ma non gridano allo scandalo, non si nascondono dietro la memoria del padre. Scelgono di difendersi con dignità nel processo e si dichiarano fiduciosi nella giustizia.

Ma presto sono costretti a sperimentare sulla loro pelle che può bastare un semplice rinvio a giudizio per far collassare un‘impresa solida e rovinare l’esistenza di molte famiglie. Contro le loro imprese si abbattono discutibili interdittive antimafia e se fino a due anni fa per sopravvivere bisognava lottare contro la ndrangheta a rischio della vita, oggi la loro lotta è su due fronti. Tutto diventa ancora più triste e doloroso quando la Prefettura pensa di riscrivere la storia d’un uomo la cui vicenda umana, anche grazie all’associazione “Libera“ di don Ciotti, è stata raccontata nelle scuole di mezza Italia, sui giornali ed in televisione. Un processo kafkiano alla memoria di Nino Polifroni.  Questa è la Calabria, una terra in cui convivono eroi spesso finti e vittime vere, dove centinaia di imprese possono essere messe sul lastrico senza un giusto processo e senza possibilità di appello. Perché sorprendersi se nessuno investe più ed i giovani vanno via?