Mezzo secolo fa, la mattina del 21 agosto 1971, George Jackson, detenuto nel carcere di San Quentin, aspettava con ansia la visita del suo legale Stephen Bingham, un giovane avvocato bianco, upper class, diventato negli anni 60 militante rivoluzionario. Alle 12 Bingham non era ancora arrivato. Jackson, solitamente tranquillo, si innervosiva sempre di più. L’avvocato era bloccato ai cancelli dalla sorveglianza, che insisteva per fargli lasciare il registratore con cui il legale diceva di voler registrare la testimonianza di Jackson, accusato con altri due detenuti neri, Fleeta Drumgo e John Clutchette, di aver ucciso una guardia carceraria nel penitenziario di Soledad, il 16 gennaio 1970. In quell’agosto 1971 George Jackson era probabilmente il detenuto più famoso d’America, uno dei principali leader afroamericani, una leggenda per i giovani rivoluzionari e radicali dell’intero occidente. Il suo libro Soledad Brothers era un bestseller ovunque. La campagna in difesa dei 3 “fratelli di Soledad” era al centro della politica radical in tutta l’America e oltre.

Jackson era entrato in carcere 10 anni prima. Per una rapina da 70 dollari era stato condannato a pena variabile da un anno di carcere all’ergastolo. Ogni anno una corte avrebbe dovuto decidere se liberarlo o fargliene passare altri 12 dietro le sbarre. Ogni anno il pollice era stato puntualmente verso. In carcere si era politicizzato, aveva studiato i classici del marxismo, nel 1966 aveva fondato uno dei primi gruppi comunisti e rivoluzionari neri, la Black Guerrilla Family, radicata soprattutto nelle prigioni, poi si era avvicinato al Black Panther Party di Huey Newton diventando “maresciallo di campo” per le carceri.

Il 13 gennaio 1970, nel penitenziario di Soledad, due gruppi di prigionieri, neri e bianchi, erano stati mandati insieme, per l’ “ora d’aria”, nello stesso angusto cortile. Nessuno di loro era mai uscito dalla cella da mesi: erano carichi di rabbia ed energia repressa in una fase di tensione razziale altissima. Lo scontro era inevitabile, probabilmente cercato dalla stessa direzione del penitenziario, ed esplose puntualmente. Per “sedare la rissa” una guardia carceraria, dalla torretta, aprì il fuoco, uccise tre detenuti neri e ne ferì un quarto. Tra questi W.L. Nolen, amico di Jackson e anche lui leader della Bgf e delle Black Panthers. Tre giorni dopo il poliziotto fu assolto da ogni accusa dal Grand Jury. Nello stesso giorno un’altra guardia carceraria fu ammazzata all’interno del carcere per rappresaglia. Dell’omicidio furono accusati “i fratelli di Soledad”, tutti militanti rivoluzionari. Al processo, nel 1972, Drumgo e Clutchette furono assolti. Jackson, a quel punto, era già morto.

Angela Davis, docente e militante comunista nera, fu tra le più attive nel difendere i Soledad Bothers. Fay Stender, avvocatessa bianca e radical che aveva già difeso con successo il fondatore del Black Panther Party Huey Newton, assunse la difesa anche di Jackson. La causa dei tre detenuti diventò una bandiera. Al Comitato che si formò per sostenerli aderirono Marlon Brando e Jane Fonda, Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, Noam Chomsky, Benjamin Spock, Pete Seeger, Tom Hayden. Angela Davis non incontrò mai il prigioniero di Soledad, nel frattempo spostato con i co-imputati a San Quentin. In compenso diventò amica di Jonathan Jackson, fratello minore di George, attivissimo nel Comitato.

Il 7 agosto 1970 Jonathan, 17 anni, si presentò nell’aula del tribunale di Marin County, California, dove una corte presieduta dal giudice Haley processava James McClain, detenuto e pantera nera, accusato di aver ucciso una guardia carceraria. Nonostante il caldo portava un giaccone lungo. Quando la polizia, insospettita, si avvicinò per perquisirlo tirò fuori un fucile e alcune pistole. Armò McLain e altri due detenuti neri presenti in aula come testimoni. I quattro presero in ostaggio il giudice, il procuratore Gary Thomas e tre membri della giuria. Chiesero la liberazione dei Fratelli di Soledad e un aereo a disposizione per lasciare il Paese. All’uscita del tribunale la polizia sparò sul furgone con dentro rapitori e ostaggi. Tre sequestratori, tra cui Jonathan Jackson e McClain, furono uccisi. Perse la vita anche il giudice Haley, il procuratore Thomas rimase paralizzato dalla vita in giù. Angela Davis, che aveva comprato le pistole usate da Jackson, fu accusata di complicità. Fuggì e diventò a propria volta un idolo dei movimenti rivoluzionari. Fu catturata, arrestata, processata con gli occhi di tutto il mondo puntati sul suo caso. Nel 1972 una giuria composta solo da bianchi la assolse.

Dopo la strage di Marin County e dopo che Fay Stender era riuscita a far pubblicare le sue lettere dal carcere con immediato ed enorme successo, George Jackson diventò il nuovo eroe rivoluzionario per i neri come per i radical bianchi. Avrebbe potuto sfruttare la posizione per imporsi come uno dei principali leader della nuova sinistra americana e puntare sulla mobilitazione cresciuta intorno al caso dei Soledad Brothers per ottenere assoluzione e scarcerazione. Non era nel suo carattere. Voleva agire, pensava di evadere per accendere la miccia della rivoluzione americana. Dopo la morte del fratello cercava la vendetta. Chiese all’avvocatessa Stender di portargli un’arma in carcere e il rifiuto provocò una brusca rottura tra i due, legati sino a quel momento anche sentimentalmente. In cella aveva appeso un grande manifesto di Jonathan e sotto aveva scritto, citando Ho Chi Minh, “Il dragone è arrivato”.

Ripetè la stessa frase il 21 agosto 1971, minacciando con una pistola due guardie. Forse gli aveva portato l’arma l’avvocato Bingham, nascosta in quel registratore che alla fine la sorveglianza aveva fatto passare. Forse, ma è poco probabile, gli era arrivata per altre vie. Di certo dopo il colloquio con l’avvocato una guardia notò che Jackson aveva qualcosa nascosto nella folta capigliatura crespa. Prima che riuscisse ad avvicinarsi il detenuto aveva impugnato la pistola, con la quale costrinse le due guardie ad aprire le celle, liberando prima 6 detenuti tra cui Drumgo e il suo amico Johnny Spain, di padre nero e madre bianca, poi spalancando tutte le 34 celle del braccio. Nella mezz’ora successiva ci fu una vera mattanza. I rivoltosi sgozzarono cinque guardie, tre delle quali persero la vita. Furono uccisi anche due detenuti bianchi. Dall’interno di San Quentin fu dato l’allarme, il carcere fu circondato. Jackson, il solo armato tra i rivoltosi, e Spain tentarono comunque di traversare il cortile. Il primo fu colpito a morte. Il secondo si arrese, seguito poi da tutti gli altri. L’avvocato Bingham si rese latitante, riparò in Francia dove rimase per 13 anni. Nel 1984 si consegnò alla giustizia americana e due anni dopo fu assolto per insufficienza di prove.

Il processo contro i principali rivoltosi, i “San Quentin 6”, si svolse nel 1977 e proseguì per 17 mesi, il più lungo nella storia americana sino a quel momento. Produsse migliaia di pagine di testimonianze senza riuscire a chiarire la dinamica della rivolta e del massacro. Dei sei imputati tre, fra cui Drumgo, furono assolti, altri tre condannati. Solo Spain, in catene per tutta la durata del processo, fu condannato per omicidio ma qualche anno dopo la Corte federale annullò la condanna riconoscendo che i diritti costituzionali dell’imputato erano stati violati tenendolo in catene. La scia di sangue non si fermò lì.

L’uccisione di Jackson innescò un’ondata di proteste che portò il 9 settembre alla rivolta del carcere di Attica, conclusa con la più sanguinosa strage in uno scontro tra americani dai tempi della guerra civile: 43 vittime. Il 28 maggio 1979 Edward Glenn Brooks, un detenuto della Black Guerrilla Family appena liberato sulla parola, irruppe nella casa dove Fay Stender, ex avvocato di Jackson, viveva col figlio e la compagna. La costrinse a scrivere poche righe: «Ammetto di aver tradito George Jackson e il movimento delle carceri quando avevano più bisogno di me». Poi le sparò sei colpi. L’avvocatessa, paralizzata dalla vita in giù, si suicidò l’anno dopo. Fleeta Drumgo, scarcerato, fu ucciso per strada pochi mesi dopo, nel novembre 1979. Nell’orazione funebre Angela Davis lo definì “un martire comunista”. Come George e Jonathan Jackson.