Zerocalcare con la serie “Strappare lungo i bordi” racconta una generazione, anzi più di una. Riesce a dipingere i trentenni e i quarantenni di oggi partendo dal passato, il loro, il suo, il mio, che ricalca con la precisione di un chirurgo. Un’operazione sociale dove risate, battute e una finta leggerezza ti si attaccano addosso e vieni scaraventato dentro le difficoltà, i dolori e le false certezze con le quali sei cresciuto. In modo disincantato e onesto Michele Rech è in grado di raccontarsi, di svelare quanto spesso per debolezza non abbiamo il coraggio di guardarci e preferiamo perpetrare l’estenuante proiezione di un’immagine attesa.

Sbarazzandosi di regole disegna l’ombra che inghiotte e dalla quale non sempre si può fuggire; lo fa con rapidità, genialità, con la bandiera curda che troneggia nella sua stanza di adolescente. Con rimandi a videogiochi e cartoni animati che hanno tirato su generazioni, a dolorosi fatti di cronaca come l’omicidio di Falcone, a serie televisive imperiture o di recente ideazione, porta lo spettatore dentro il trambusto emotivo di chi è cresciuto schivando maldestramente il bullismo, tentando di sfuggire da frasi come Amare le donne è da froci. Il sessismo, il machismo tossico, le aspettative, il percepire ogni azione come potenziale tradimento delle aspettative. Quello che ne viene fuori è un personaggio umano che fa i conti con la propria coscienza e dalla quale scappa. Non mancano critiche all’ipocrisia dei Gesuiti, condanne allo sfruttamento del lavoro minorile, messaggi di inclusione: chiama ‘genitore uno’ sua madre e Sara, una dei protagonisti della serie, è omosessuale. “Strappare lungo i bordi” è il racconto di una generazioni alla quale si è mentito e che si è trovata a far i conti con l’assenza di lavoro e l’irrealizzabilità dei propri sogni.

Ragazzi che decidono di mollare, di smettere di provarci campandosi con la precarietà del poker on line (Secco), o che devono parcheggiare a tempo indeterminato l’obiettivo di insegnare servendo caffè in un bar (Sara). Ma è anche la storia di chi ce la mette tutta (Alice) nel donarsi agli altri e nel tentare di risollevarsi dalla violenza che non può esser dimenticata, violenza meschina, subdola, la stessa da cui molte donne non riescono ad allontanarsi anche se portano sul proprio corpo il marchio di un compagno che si è trasformato in carnefice. E poi c’è lui, Zero, che ricerca -il più delle volte senza scovarlo- il senso della vita. Provare ad avere il controllo sulla propria esistenza è una battaglia continua, Rech lo grida grazie a una sensibilità straziante che si tramuta in fuga per la sopravvivenza. Per paura di fallire sceglie di schivare la vita, finché qualcuno gli insegnerà che è preferibile invecchiare con un viso pieno di cicatrici piuttosto che come una bambola.

Dopo l’ultimo episodio non ho trattenuto la commozione e ho provato una certa riconoscenza. Zerocalcare mi ha riportato nei luoghi dell’infanzia e tra le curve imprevedibili dell’adolescenza. Forse mi sarà anche capitato di incontrarlo nel quartiere, siamo tutti e due cresciuti a Rebibbia, o di incrociarlo alla SIP, dove i nostri genitori erano colleghi. Non avrò mai conferma o meno di ciò, ma quello di cui sono convinto è che si dovrebbe essere artisti per migliorare la realtà e non per ripiegarsi narcisisticamente sul proprio ombelico, e Michele Rech ci riesce.

E' autore di romanzi sulla discriminazione e i diritti civili. Tradotto in inglese e spagnolo, ha scritto la trilogia di Bambi, prima trilogia italiana incentrata sull'identità di genere e l'orientamento sessuale, opera pubblicata nel volume “Bambi. Storia di una metamorfosi” (Avagliano, 2022). La sua produzione letteraria comprende inoltre testi per ragazzi utilizzati nelle scuole. Reali scrive per Il Mattino e collabora con HuffPost Italia.