Hai visto, Piero, il mondo sull’orlo dell’abisso? Noi due ci siamo trovati in questi mesi saltando su posizioni inconciliabili e poi subito di nuovo insieme e poi ancora separati. La guerra, il mostro in attesa, ha le fauci aperte. Per due giorni abbiamo tremato finché la paternità del missile caduto in Polonia non è stata riconosciuta come un incidente di matrice ucraina. Il mondo sta malissimo e i nostri sogni di fine della storia come fine delle guerre si sono infranti come mosche sul vetro in autostrada. Non c’è, non ci può essere, una posizione di destra e una di sinistra. Quale può essere la ragione che spinge ad azioni di guerra bombardando, uccidendo, stuprando, facendo crollare, terrorizzando spiando, tremando e facendo tremare?

C’è qualcosa nell’uomo che deriva dall’animale e che spinge a costruire quell’impero nei cui confini tutti devono essere simili e cantare le stesse ninna nanne, mangiare gli stessi pasticci di mele ai matrimoni e ai funerali, trovarsi simili fra simili, indistinguibili, omologati. C’è poi qualcos’altro nell’uomo che spinge a scavare un tronco e a farne una barca sul fiume. Che spinge ad andare sull’altra riva fra genti sconosciute e a mischiarsi, che spinge a saltare da una rupe e schiantarsi finché un razzo parte per la Luna e tornerà a Natale. Esiste un’umanità che freme di feconda indisciplina e che è pronta a perdere la vita pur di poter scambiare letterature e oggetti, sete e filati, microchip e mode, film e poemi, un’umanità che insieme a legge e ordine chiede anche anarchia, quel tanto di anarchia che feconda i desideri e li trasforma in invenzioni, fallimenti, tentativi, evoluzioni.

Oggi il mondo appare diviso in due grandi zone finalmente coscienti di essere tra loro nemiche o almeno inconciliabili. C’è un mondo degli imperi: l’impero cinese, l’impero ottomano, l’impero russo. Non vogliono saperne gli altri sistemi di misura che non siano quelli della potenza divisa in reggimenti e plotoni e guardie col pennacchio o draghi fiammeggianti, sultani e visir, un mondo che esisteva prima del 1914 e che pensavamo estinto per sempre e chiuso nelle scatole dei romanzi e dei film. Quel mondo è tornato infuriato, sospettoso. Un missile in Polonia, dicevamo, che ammazza due poveracci e minaccia l’effetto Sarajevo. Non nascono così le guerre mondiali? Per una revolverata all’arciduca? O perché il cancelliere di baffo corto rimette insieme tutti i tedeschi sparsi come palline di mercurio, sterminando gli ebrei?

Noi, parlo almeno per me, stiamo al gioco. E facciamo (faccio) finta che dietro ci siano grandi motivi ideali, grandi trucchi e complotti, senza mai dimenticare la tremenda Cia che è peggio della Spectre. Tutti si accusano, le armi sono pronte, tutti i desk operativi fanno simulazioni di guerra, tutti gli spioni, i geopolitici, informati e disinformati, sono come i piloti e i fanti di trincea, pronti nelle buche, negli hangar, nelle cabine di comando, sulle tolde e nelle astronavi, sotto gli oceani e sopra i ghiacci, hanno tutti in mano dei pulsanti, degli elettrodi, dei telecomandi e delle radio e delle frequenze e il mondo è ai nastri di partenza della distruzione. Attenti, ai posti, pronti? No! Ecco che arriva il contrordine. Il Presidente polacco dice che quel missile piombato su una fattoria sfondando una casa e ammazzando due poveri disgraziati scelti dal caso, era un povero missile sperduto, un cucciolo di Armageddon! Quanto siamo lontani dai giorni del nostro cretinismo, almeno io parlo per me, quando credevamo che la guerra fosse finita per sempre, il dio Giano aveva aperto un’osteria e chiuso le porte perché la guerra fredda era diventa un brodino tepido e i garofani fiorivano nelle canne dei fucili e tutti quei ragazzi con le bandiere arcobaleno che non sanno neppure che cosa sia un piede in cancrena e un forno crematorio mobile.

Il mondo è in attesa, presto arriverà il Natale o Papà Gelo come dicevano in Unione Sovietica e tutti sono pronti nella speranza, ma anche nella sottomissione allo scherzo fatale che potrebbe nel giro di pochi giorni o poche ore ardere come torce o lasciare al nostro posto un’impronta fotografica, come i bambini di Hiroshima che andavano a scuola quella mattina ed erano in uniforme nei pulmini e la gente camminava e parlava e poi in un attimo tutto era non mai esistito e c’era un buco sia nella memoria che nella storia. Eppure, era stato dichiarato chiuso quel turpe periodo in cui si temeva la fine del mondo. Perché del resto temerla? La fine del mondo appartiene alla logica degli imperi, non a quella dei mercanti del tronco scavato e messo nella corrente per attraversare il fiume e poi l’oceano, dell’astronave che varca il sistema dei pianeti, della fantasia che scrive romanzi e della fisica che cerca di unificare le forze dell’universo alla ricerca del dio laico e invisibile che governa il caso.

Aznavour cantava “l’amour et la guerre”, i coquelicot rossi nel giardino dei padri tornati dalla guerra mentre l’avvoltoio di Calvino vola in spirali sui fiumi in cui scorrono finalmente le acque piene di carpe e trote, non più i corpi dei soldati che le fanno insanguinar. Ora il fantasma della guerra è fra noi. Ora siamo tutti in mimetica mentale mentre i fotogrammi sfuggono sfarfallando ma non sono farfalle, sono coriandoli di un nulla prossimo venturo.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.