Al suo esordio nella narrativa con “Tardi è tardi” (Il vicolo – divisione libri), Francesca Sabella compone un quadro in cui a erompere c’è un’unica voce maschile in un flusso di coscienza che è pieno e fin da subito ossessivo.
La storia è semplice: una relazione finita. Lei va via di casa, lui non trova più un motivo per alzarsi dal letto. Il peso specifico della nostalgia è il vuoto. Come conseguenza del dolore, un senso di non appartenenza al mondo: la gente è incuriosita, la gente si intromette con le sue domande, unico nido possibile diventa dunque la casa, diversa perché svuotata dalla presenza di lei e dal suo disordine. “Che meraviglia, la solitudine” conclude la voce narrante in questo riflettere fra sé e in questo parlarsi addosso, una stolida staticità dove i soli suoni rimasti sono quelli delle parole.

“Perché lei c’è sempre, non cambia idea come le donne o gli amici, lei ti dorme accanto, ti accarezza e ti tiene compagnia”. Attraverso il vociare del protagonista, comincia a delinearsi la sua personalità, che è via via più respingente nel suo infantilismo ed eccessiva nel delirio narcisistico di pensarsi al centro sempre e comunque, vittima di volta in volta degli altri in generale o di una donna specifica.
All’autrice non interessa rendere quest’uomo accattivante, ciò su cui punta sembra essere la verosimiglianza. E in effetti, l’universo narrativo è coerente nella misura in cui in quest’uomo ne riconosciamo tanti altri, con le loro pretese ingenue, risibili, romantiche o opprimenti. I pezzi della relazione che l’uomo ha vissuto fino a un anno prima vengono ora a ricomporsi. L’incontro casuale in un bar, un vero coup de foudre, la prima cena, il primo bacio, il disordine di Camilla a invadere la vita ordinata di lui, avvocato solitario, eccedente nelle parole d’amore e nei gesti.

Sabella ricostruisce l’arco narrativo del passato in un getto di frammenti che ora prendono il sopravvento, ora cedono il passo al presente fino a sbiadire e scomparire. Da una parte il movimento, l’amore come parabola che induce i due a cambiare abitudini, spazi e quotidianità. Dall’altra il tempo dopo l’amore, in cui all’improvviso tutto si ferma e in cui il pomeriggio di una sola domenica si slabbra fino a sembrare infinito. La vita è confinata oltre la porta della stanza da letto, oltre la parete verde petrolio che incombe fissa, come una minaccia, davanti agli occhi di lui. Dentro casa non succede nulla: anche il tempo sembra scorrere in modo diverso, sotto scacco di un rimuginare che porta in superficie i ricordi e immobilizza i minuti. Ma è ovvio che così non è, e che la vita non si ferma, non potrebbe, seppure a volte ce ne dia l’illusione.

C’è una svolta nella vita di lui, inaspettata e sorprendente. Non la anticipiamo. Basterà riflettere su come da adesso in poi nel romanzo la prospettiva cambi e l’inquadratura si stringa. La mancanza si rende perfino più forte, e la casa più vuota, mentre altri pezzi della storia riemergono intermittenti. La ricerca di un figlio e le difficoltà di restare incinta avevano condotto i due a un consulto medico, la routine meccanica di un amore consumato solo nei giorni buoni, quelli fertili, e poi a una diagnosi di infertilità. È stata questa l’anticamera della separazione: “A un certo punto, pure la luna influiva sul ritmo della nostra vita sessuale. Eravamo all’apoteosi della follia, o della disperazione, che poi sono la stessa cosa quando impazzisci. Sei pazzo e disperato, disperato e pazzo”. Ma ciò che l’autrice sta per compiere, a un passo dall’epilogo, è un twist pronto a ribaltare il fuoco del dolore. Nel prisma delle relazioni umane, sembra dire Sabella, tutto dipende dalla lente attraverso cui inquadriamo le nostre ferite. Il contesto, dunque, non solo il punto di vista. È sufficiente introdurre un piccolo nuovo tassello nella narrazione e ogni aspetto assume un peso diverso. La malattia. Succede di continuo, succede a tutti. Ed ecco perché la storia di un’ossessione un po’ scontata diventa ora capace di parlare ad ognuno.