Una terrificante botta di magnitudo 7.5, seguita da un’altra da 6.2, ha inaugurato ieri il 2024 lungo la costa del Giappone centro-occidentale, facendo tremare anche gli edifici di Tokyo, a circa 500 km dall’epicentro di Wajima. Era la prima mattinata italiana, e il mondo pensava al peggio. Ma se in altre aree del Pianeta, la nostra compresa, un sisma di quella potenza avrebbe causato una ecatombe, in Giappone piangono 6 morti rimasti sotto sparuti crolli di alcuni edifici o negli incendi seguiti alle scosse delle loro abitazioni a Wajima. Nelle tre contee di Ishikawa, Toyama e Niigata circa 33 mila abitazioni sono rimaste senza elettricità, le autostrade sono state chiuse, come le linee dei treni ad alta velocità tra Tokyo e Ishikawa e gli aeroporti. Quasi in tempo reale, sui televisori lampeggiava l’Sos tsunami: “Siamo consapevoli che le vostre case e i vostri beni vi sono cari, ma le vostre vite sono più importanti di qualsiasi altra cosa. Correte nelle zone più alte possibili”, era il claim dell’emittente nazionale Nhk, e le zone colpite dal sisma sono entrate in emergenza, e ci resteranno per tre giorni. Il primo ministro Fumio Kishida ha così lanciato l’allerta tsunami in sei provincie tra Yamagata e Fukui: “I residenti devono stare all’erta per altre possibili scosse e invito le persone che si trovano in aree in cui si prevede uno tsunami a evacuare il prima possibile”. Ed è iniziata l’evacuazione verso le aree di sicurezza predisposte in luoghi più alti rispetto al livello del mare.

L’ondata di tsunami che il Pacific Tsunami Warning Center prevedeva fino a 5 metri, è passata senza danni, alta da 3 a 1,2 metri, con qualche danno nel porto di Wajima, sulla penisola di Noto. La sicurezza delle vite umane è stata garantita, per il rispetto delle regole ferree nelle costruzioni di infrastrutture e abitazioni – con tanto know wave Made in Italy – e per le regole ferree dalla prevenzione mandate a memoria nelle costanti esercitazioni.

Lo tsunami è l’incubo giapponese. Se c’è un’opera artistica leggendaria che lo raffigura ed è diventata l’icona globale di una delle peggiori dimostrazioni della potenza distruttrice dell’acqua, è la “Grande Onda”, la possente muraglia liquida sollevata dall’oceano, ritratta nell’attimo che precede l’ingoio mostruoso di alcune barche con pescatori. Era il 1830 quando l’artista settantenne giapponese Katsushika Hokusai, presentò la xilografia diventata una delle opere più popolari della storia dell’arte, raffigurando il simbolo delle catastrofi del suo paese. Tsunami, del resto, è una parola coniata in Giappone, tra i paesi martiri della più alta e impressionante delle onde marine, generata dal rimbalzo di forti terremoti sottomarini o eruzioni vulcaniche o estesi smottamenti costieri. Colpi dalle viscere della terra in grado di far decollare in superficie la più improvvisa e temuta colonna d’acqua. Un incubo marino che può correre con potenza energetica e velocità pazzesche fino agli 800 km/h a profondità tra i 4000 e i 5000 metri. Spinta verso la terraferma diventa qualcosa di terrorizzante e paralizzante. Tanto più che a ridosso delle coste si fa precedere da un’improvvisa bassa marea, attimi incomprensibili di un grande risucchio di acque che lascia scoperti i fondali per decine di metri dalla riva verso il mare aperto, seguiti dal suo livello massimo, il fatidico runup, che le innalza anche di decine di metri e oltre i livelli degli abitati, spazzando in un amen tutto e risucchiando tutto nel mare aperto.

Gli tsunami possono percorrere enormi distanze e attraversare l’Oceano Pacifico da una costa all’altra, come accadde dopo il terremoto di magnitudo 9 che nel 1700 produsse l’onda che distrusse le coste giapponesi. O dopo il terremoto di magnitudo 8.7 del 1 novembre 1755 con epicentro nel cuore dell’Atlantico da dove l’onda mortale avanzò alta tra i 6 e i 15 metri e distrusse Lisbona lasciandola con 90.000 morti, devastando poi i litorali portoghese e spagnolo, dell’Europa atlantica e Nord Africa, dell’arcipelago di Madeira e delle Azzorre, fino alle Barbados e al Brasile e al nord America. O come nel 1960 quando un terremoto in Cile causò lo tsunami che correndo sulle acque del Pacifico arrivò su Hawaii, Giappone e Alaska. Tra i più recenti e catastrofici ci sono lo tsunami del 26 dicembre 2004 che causò 230.210 morti nel Sud-Est asiatico, la micidiale altissima onda dell’11 marzo 2011 che in Giappone sulla costa nord-occidentale ne lasciò 14.949 accertati con 9880 dispersi e colpì anche la centrale nucleare di Fukushima con una catena di tragedie scatenate dalla scossa di magnitudo 9, il violentissimo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Ha’apai nelle Isole Tonga nel gennaio 2022 con altre stragi e un’emergenza sulle coste del Perù centrale.

L’area più a rischio tsunami è sicuramente quella dell’Oceano Pacifico lungo l’Anello di fuoco, i 40.000 km di cintura con dentro ben 8 placche tettoniche a contatto con la grande placca del Pacifico di Nazca e Cocos, e con ben 452 vulcani attivi o dormienti tra i più grandi del mondo, dal Saint Helens statunitense al Popocatepetl messicano, dal Cotopaxi ecuadoriano al Fuji giapponese. Altre aree sismiche e vulcaniche molto attive sono nell’Oceano Indiano lungo la Fossa di Sonda e nell’area che delimita le placche australiana e del Pacifico, tra Papua e le isole Salomone. E in Italia? Diciamo subito che noi italiani abbiamo adottato un sinonimo, il termine maremoto, molto meno terrorizzante per un Paese che ha ormai cancellato dalla memoria collettiva il rischio tsunami che pure hanno inghiottito migliaia di persone. Accadde anche nell’immediato dopo-terremoto nello Stretto del 28 dicembre 1908. Mentre gli scampati ai crolli cercavano sul litorale la più naturale delle salvezze, appena giunti videro atterriti le acque ritirarsi di oltre duecento metri. Sembrava una scena biblica. Pochi minuti dopo, quattro colossali ondate di tsunami alte come i più alti palazzi della città si abbatterono sulla spianata di San Ranieri. L’onda si riversò sulle coste dello Stretto con ondate dai 6 ai 12 metri di altezza, con il picco di 13 metri a Pellaro, frazione di Reggio, e fece sparire nei suoi gorghi migliaia di poveri cristi, cancellando i paesi di Pellaro, Lazzaro e Gallico sulle coste calabresi, Briga, Paradiso, Sant’Alessio e Riposto su quelle siciliane.

Anche se ignoriamo il rischio, negli ultimi duemila anni i sismologi dell’Ingv calcolano lungo la penisola 71 eventi gravi di tsunami, di cui 46 causati da terremoti e 12 da vulcani. La documentazione scritta ne cataloga, negli ultimi 400 anni, una media di 15 per secoE lo, quasi tutti fortunatamente di scarsa intensità, che hanno colpito con maggior frequenza la Sicilia Orientale e lo Stretto, e tra le coste di ogni regione in particolare Liguria e Friuli-Venezia Giulia. Visto che il 30% della popolazione italiana vive lungo le coste, faremmo bene nel 2024 a considerare il fenomeno come uno dei nostri naturali rischi.

La scala che ne misura l’intensità è la scala Ambraseys-Sieberg, che va da 1 a 6, e classifica i nostri maremoti di intensità media intorno a 2-3, e in effetti il catalogo dei maremoti del Mediterraneo ne riporta decine con intensità 2-3 che si sono abbattuti più volte lungo la riviera di Ponente in Liguria, nella costa di Livorno, della Campania, nel trapanese, lungo la Calabria ionica e in Romagna. L’unica nostra fortuna è che gli tsunami si muovono in mare molto più lentamente delle onde sismiche che li provocano, e questo concede del tempo utile visto che oggi sono attivi sistemi di rilevamento con reti di sensori sismici e di pressione posati sui fondali in corrispondenza delle faglie sismiche. Sismologi, fisici, geologi, informatici sono impegnati H24 nella sorveglianza con il team guidato da Alesandro Amato, e registrano, elaborano e analizzano ogni parametro. Nel caso di un “Early Warning” si attivano le procedure di allertamento e il sistema nazionale di Protezione Civile ha una “finestra” utile per salvare almeno le vite umane. Abbiamo l’obbligo, nel 2024, di iniziare a fare seriamente prevenzione. Perché a fare la differenza tra la vita e la morte sono da un lato le norme costruttive antisismiche fatte rispettare sia per l’edilizia che per le infrastrutture – quelle che rigorosamente il Giappone ha fatto adottare a tutti dopo i grandi terremoti del 1855 che distrussero Edo, l’antica Tokyo, e dopo quello del 1923 a Kanto ̄ popolosa regione di Tokyo che lasciò un’ecatombe di 100.000 morti descritta nella sua crudeltà anche da Ernest Hemingway sul «Toronto Daily Star» -, sia l’educazione al rischio che nel paese del Sol Levante è diventata una epopea e limita al minimo le vittime.

La prevenzione non è un optional. Sono regole ferree da mandare a memoria e da far rispettare, deve diventare un obbligatorio rito collettivo imparare a rischiare meno, sapere cosa fare e quali comportamenti adottare, anche per contenere stati di panico. Misure che noi abbiamo snobbato a differenza dei giapponesi che hanno alle spalle decenni di allenamento che hanno preparato intere generazioni a gestire il pericolo. La difesa e l’autodifesa sono incorporate nel loro sistema educativo, e nelle pianificazioni urbanistiche. Noi, si applaude da lontano. In questo 2024 che si annuncia comunque pieno di rischiosità naturali e indotte, faremmo bene ad avviare quell’attività permanente di conoscenza e prevenzione facendola entrare a pieno titolo nella didattica e nell’educazione, insegnandola anche nei luoghi di lavoro e nei luoghi più frequentati. Non è mai troppo tardi e non si finisce mai di imparare la sicurezza perché è la nostra ignoranza che trasforma molti eventi naturali in disastri, annullando la percezione dei pericoli e creando una dimensione virtuale di sicurezza. Conoscere le procedure codificate per affrontare un disastro o un allarme, pretendere da chi ne ha le responsabilità i piani di autoprotezione, sono le regole base di sicurezza. Non è accettabile in un Paese come il nostro, che appena un italiano su dieci abbia una certa padronanza di che fare e quali comportamenti adottare in caso di rischio connesso a calamità naturali, e quasi nessuno saprebbe cosa fare anche perché gli stati di rischio a livello locale non sono ben comunicati e chiari.