Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed editorialista di punta del Fatto Quotidiano, il giornale dei manettari in servizio permanente effettivo, è stato condannato ieri ad un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio, oltre a risarcire con 20mila euro il collega Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina.

Si tratta di una condanna più pesante di quella inflitta nei mesi scorsi a Luca Palamara, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex capo del ‘Sistema’ che condiziona le nomina e gli incarichi delle toghe. Dopo oltre un anno di udienze, i giudici di Brescia hanno dunque stabilito che Davigo non aveva alcuna ‘immunità’ particolare e non poteva rivelare a terzi il contenuto dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.

La vicenda inizia alla fine del 2019, una volta terminati gli interrogatori in Procura a Milano di Amara da parte dell’aggiunta Laura Pedio e del pm Paolo Storari che indagano sul colosso petrolifero di San Donato. Amara, durante uno di questi interrogatori, raccontò dell’esistenza di una organizzazione segreta denominata Ungheria, nata come continuazione della loggia P2.

Ungheria sarebbe una super loggia coperta in grado di interferire sulle funzioni di organi di rango costituzionale e di condizionarne l’operato, asservendolo agli interessi dell’organizzazione e dei suoi appartenenti occulti. Amara fece ben 64 nomi di appartenenti allo loggia: magistrati, alti ufficiali delle forze di polizia, prelati, imprenditori.

Storari voleva procedere subito alle iscrizioni nel registro degli indagati ma percependo inerzia investigativa da parte dei capi, tramite la collega Alessandra Dolci, compagna di vita di Davigo, in quel momento potente membro del Consiglio superiore della magistratura, decise di rivolgersi a quest’ultimo per un consulto. Davigo non perse tempo e si fece consegnare i verbali incriminati, dicendo a Storari che il segreto investigativo non era opponibile a se stesso.

Una volta entrato in possesso delle carte, Davigo avvisò del contenuto ben 11 persone dentro e fuori il Csm, fra cui l’ex vice presidente David Ermini, i capi della Cassazione, l’ex primo presidente Pietro Curzio e ex pg Giovanni Salvi, i consiglieri di Palazzo dei Marescialli Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Alessandro Pepe, Giuseppe Cascini, Fulvio Gigliotti, Stefano Cavanna, l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s). Lo scopo di Davigo non sarebbe stato quello di superare l’impasse investigativo milanese bensì screditare Ardita, inserito da Amara fra i componenti di Ungheria.

Con tale azione Davigo avrebbe così cercato di condizionare il voto per la Procura di Roma nel 2020 dopo l’addio di Giuseppe Pignatone e sul quale era in disaccordo, nonostante fosse della stessa corrente e co-autore di libri, proprio con Ardita. La difesa di Davigo ha sempre negato tale circostanza, giustificandone la non osservanza delle circolari del Csm del 1994-1995 che disciplinano la trasmissione formale degli atti d’indagine, per evitare fughe di notizie come già avvenuto per il Palamaragate.

Mai chiarite le tempistiche della vicenda, anche a causa del fatto che l’imputato e alcuni dei principali testimoni, Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, hanno affermato di aver perso o venduto il telefono prima delle indagini, in alcuni casi poche ore prima delle perquisizioni. Manca, infatti, il giorno preciso in cui Storari si è recato sotto lockdown a casa di Davigo e gli consegna una pen drive con i verbali. I due hanno collocato la data nei primi dieci giorni di aprile del 2020. Davigo riferisce di esserseli mandati via mail il 7 aprile per poi stamparli a Roma il 4 maggio (temendo un furto sul treno se se li fosse portati), giorno in cui comincia a parlarne ad altre persone.

I pm Francesco Milanesi e Donato Greco, e sopratutto la parte civile Ardita, hanno fatto aleggiare in più occasioni il sospetto che l’ex pm sapesse di Amara almeno due mesi prima, portando come indizi alcuni atteggiamenti tenuti nei confronti di Ardita come la frase “tu mi nascondi qualcosa”, pronunciata poche ore prima del plenum del Csm del 3 marzo. “Penso che per il dottor Davigo essere assolto o essere condannato sarebbe stata la stessa cosa: come ha sempre sostenuto, chi viene assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. Non esistendo, a suo dire, errori giudiziari da parte degli ex colleghi, credo proprio che non proporrà appello”, ha dichiarato Antonio Leone ex presidente della Sezione disciplinare del Csm.