L’ex Pm di Mani pulite e idolo di tutti i giustizialisti in servizio permanente effettivo ha una “concezione privata” di prerogative e funzioni del Consiglio superiore della magistratura, in quanto, a suo dire, facendone parte può esercitarle “sempre e comunque”. A dirlo è stato ieri il Pm bresciano Francesco Milanesi nella requisitoria del processo a carico dell’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati, ora in pensione, accusato di rivelazione e utilizzo di segreto sui verbali della “Loggia Ungheria” resi dall’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.

Tali verbali gli erano stati consegnati dal Pm milanese Paolo Storari, titolare del fascicolo, a casa della sua compagna, la Pm antimafia Alessandra Dolci, nell’aprile 2020, affinchè si attivasse su una presunta inerzia investigativa da parte dei vertici della Procura del capoluogo lombardo.

“Sarebbe consolante – ha detto Milanesi – affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti. Purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa”, chiedendo quindi la condanna ad un anno e quattro mesi di prigione, pena sospesa. “Che bisogno c’era di fornire al singolo membro del Csm una mole di informazioni così elevata rispetto all’indagine in corso? Se il tema era la gestione del rapporto su come muoversi per ‘riportare quel procedimento sui binari della legalità, che necessità c’era di dare delle trascrizioni e delle registrazioni? Si è scelta una via privata a un problema pubblico”, ha aggiunto Milanesi.

Le regole prevedono che, in caso di contrasti sulla conduzione del fascicolo, ci si debba rivolgere alla Procura generale. Scelta che non venne operata “per la sfiducia personale di Davigo nei confronti del magistrato che svolgeva tali funzioni”, ha ricordato Milanesi. “Perché – ha puntualizzato – se riteniamo una persona inadatta non seguiamo la legge? Sarebbe come se un evasore fiscale dicesse “non mi fido di chi gestisce i soldi pubblici e preferisco gestirli io”. Si è individuata una via privata a un percorso pubblico, il Csm è attrezzato per gestire notizie riservate”. Dietro il comportamento dell’ex magistrato, allora, ci sarebbero stati altri e ben più gravi scopi. “L’unico fine che ha mosso Davigo non era la giustizia o cercare di salvaguardare le indagini sulla Loggia Ungheria ma abbattere Ardita, non c’è altra motivazione”, ha affermato l’avvocato Fabio Repici, difensore di Sebastiano Ardita, ex consigliere del Csm ed ora procuratore aggiunto a Messina, inserito da Amara come membro della Loggia Ungheria, in passato amico e coautore di libri con lo stesso Davigo, oltre ad essere l’altro volto noto della corrente Autonomia&indipendenza, prima di spaccarsi nel 2019 sul voto per il nuovo procuratore di Roma che avrebbe sostituito Giuseppe Pignatone.

“La verità è più semplice del gioco di luci stroboscopiche tentato dall’imputato”, ha detto Repici al collegio della I sezione penale presieduta da Roberto Spanò, depositando una nota in cui ha chiesto un maxi risarcimento per l’ex consigliere del Csm. “O la legge è uguale per tutti – ha concluso Repici – oppure quello che vi si chiede dall’imputato è l’assoluzione del reo confesso. Non fate fare questo salto alla giurisdizione. Non ho mai creduto ai giudici che sostengono che gli “imputati assolti sono colpevoli che l’hanno sfangata”, però almeno i rei confessi, seppur con una toga addosso, si deve avere il coraggio di condannarli”. La sentenza, dopo la parola delle difese di Davigo, è prevista per il prossimo 20 giugno. Ieri era stato sentito anche l’ultimo testimone, l’ex primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio.

Davigo ha già fatto sapere che non sarà in aula la prossima settimana ad ascoltare la lettura del dispositivo per impegni pregressi.