Piercavillo ci è cascato ancora. L’ex pm del club Mani Pulite, il tecnico, il più colto, è ancora scivolato su una “dimenticanza”. Mentre disquisisce sul quotidiano di famiglia per sostenere l’ignoranza giuridica di tutti, a partire dalla ex ministra Cartabia e della sua riforma, fa riferimento, come gli capita sovente, al sistema processuale penale americano. Il tema è il patteggiamento, che nell’ordinamento italiano non comporta ammissione di responsabilità.

La novità è che, come conseguenza di una serie di provvedimenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo e anche della Consulta e della Cassazione, assunti nella riforma entrata in vigore il 30 dicembre scorso, sarà consentito di candidarsi alle elezioni anche a chi abbia patteggiato una pena. Quello che all’ex pm dà un fastidio che, immaginiamo, è quasi fisico, è proprio il punto di partenza, il fatto che coloro che concordano una pena non si cospargano anche il capo di cenere e non gridino “Sono colpevole!”, come succede negli Stati Uniti. Forse però all’illustre ex magistrato ora pensionato, quindi relativamente giovane e fresco di studi, è sfuggita una importante sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Provvede a rammentargliela il novantenne professor Beppe Di Federico, che forse ha studiato un po’ di più, o forse ha solo la “fortuna” di avere miglior memoria.

Quella sentenza, ricorda colui che fu a lungo amico e collaboratore di Giovanni Falcone, diceva in modo chiaro che chi patteggia ha il diritto di dichiararsi innocente. Perché la scelta di concordare una pena e di evitare il processo può essere stata determinata dalla necessità di evitare conseguenze sul piano sociale, economico o anche familiare. E’ proprio quel che è successo anche in Italia ai tempi delle inchieste di Tangentopoli, quando alcuni avevano deciso di trattare con il giudice pur di porre fine a un’insostenibile gogna che si accompagnava ai tempi eterni dell’inchiesta. Facciamola finita, avevano pensato, e qualcuno lo aveva fatto davvero, anche ponendo fine alla propria vita. Innocenti e colpevoli.

E’ sempre piaciuto ad dottor Davigo essere chiamato “dottor Sottile”, ma era stato un furto con destrezza dei suoi sostenitori al vero titolare del marchio, il professor Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale. Proprio per questo dovrebbe stare un poco più attento. Certo, per astuzia è imbattibile. Cita sempre il diritto anglosassone, evidentemente ha studiato il common law. Ma dovrebbe dirlo esplicitamente, soprattutto quando cita le statistiche di applicazione delle leggi, che la differenza sostanziale tra quel sistema e il nostro di civil law sta nell’obbligatorietà o discrezionalità dell’azione penale. Perché, laddove, come negli Stati Uniti e nel Regno Unito, l’azione penale non è obbligatoria, è ovvio che nel 90% dei casi ci sia un accordo tra accusa e difesa per non arrivare al processo.

Lo vediamo tutti i giorni nelle centinaia di serie televisive discendenti dall’insuperabile “Perry Mason”. Mettendo sulla bilancia tempi e costi di un dibattimento dall’esito incerto, può essere più conveniente trattare una pena possibilmente che escluda o riduca molto la possibilità del carcere. Non esiste quindi il 90% di colpevoli, ma il 90% di accordi. E spesso i rappresentanti della pubblica accusa sono costretti dal giudice e dalla legge a rinunciare a portare un caso in aula, se gli indizi non sono robusti e sostenuti da un serio quadro probatorio. Se in Italia i riti alternativi, previsti dal nuovo codice di procedura penale del 1989, non hanno mai avuto particolare fortuna è perché quella fu una riforma incompleta, il cui sistema non per caso fu definito “tendenzialmente accusatorio”, laddove l’avverbio era più forte dell’attributo. E bene ha fatto l’ex ministra Cartabia con la sua riforma, che si è concretizzata nel decreto legislativo n.1/2022 dello scorso 30 dicembre, ad allargare le maglie dei riti alternativi al processo, intervenendo anche sulle conseguenze del patteggiamento, che non può essere equiparato automaticamente a una condanna penale.

Come del resto è stato sancito dalla cassazione, dalla Corte Costituzionale (sentenza numero 276 del 2016) e dalla Corte Edu il 17 giugno 2021. Una giurisprudenza consolidata che ha negato espressamente la natura penale delle misure contenute nella legge Severino del 2012. Che oggi esce un po’ ammaccata, dopo che il Ministero dell’interno, previa consultazione dell’avvocatura dello Stato, ha inviato una circolare ai prefetti per dare il via libera alle candidature elettorali, a partire dalle amministrative del prossimo maggio, di persone che in passato avessero patteggiato una pena da due a cinque anni. Che questo provvedimento, pur se forte di così autorevole giurisprudenza, non piaccia a un magistrato con la storia di Piercamillo Davigo non è stupefacente.

Spiace però il tono sprezzante con cui definisce “perla” la formulazione di un articolo della legge Cartabia. O la sottile disumanità del sarcasmo, preferita all’intelligenza dell’ironia, con cui boccia la possibilità del patteggiamento richiesto dall’innocente.Se uno potesse chiedere o accettare una pena detentiva senza essere colpevole, potrebbe anche vendersi come schiavo. Ma i nostri sedicenti garantisti non si accorgono di questa enormità. La ragione è infatti quella di consentire a chi patteggia di evitare le conseguenze della colpevolezza”. Così ha scritto. Gli ha risposto la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.