Se fossimo in un paese civile, non ci sarebbe neppure bisogno di una “legge Severino”, perché comunque Berlusconi non sarebbe mai tornato in Senato. Insomma, quei due milioni circa di voti non li avrebbe avuti. Chi lo dice, nel giorno del grande rientro del leader di Forza Italia dopo la brutale cacciata del 2013? Forse un avversario politico? Magari Enrico Letta, che è andato a occupare il posto di Matteo Renzi, che aveva liquidato Berlusconi con il suo perfido “game over”. Invece.

Invece, come se non fosse lui stesso un imputato sottoposto a Brescia per quella rivelazione di atti d’ufficio che per un magistrato è un fatto gravissimo, ricompare d’improvviso in tv Piercamillo Davigo. A parlare di Silvio Berlusconi il “pregiudicato”, come se non fossero stati in qualche momento della loro vita tutti e due, l’ex toga e l’attuale senatore, un po’ sulla stessa barca in un’aula di tribunale. Da imputati. Colui che fu un tempo un trionfatore di “Mani Pulite”, uno che incedeva nel corridoio del quarto piano del tribunale di Milano, fregiato indebitamente del titolo di “dottor sottile” come se avesse la raffinatezza di Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale, non si è mai sottratto alle telecamere.

Ama esibire la propria competenza tecnico-giuridica, e anche ripetere ossessivamente storielle paradossali che con la reale amministrazione della giustizia hanno poco a che fare. Così non si è negato neanche questa volta all’invito di Giovanni Floris, invitato a nozze a dire la sua proprio la sera precedente il rientro di Silvio Berlusconi a Palazzo Madama. Avrebbe potuto declinare, oppure concordare di essere invitato solo come “tecnico”, sia pure magistrato ormai in pensione. Ma il personaggio non è fatto così. E neppure la storia del suo processo è proprio edificante, sul piano del rigore. Ancor meno il suo comportamento in tv. Tanto che, quando un altro ospite della trasmissione, il direttore di Libero Sandro Sallusti, nel ricordargli di essere stato da lui due volte querelato ed esserne uscito vincente, gli rinfaccia di essere un “indagato”, l’ex magistrato non lo corregge. Già, perché Davigo non è più un semplice “indagato”, ma un imputato a tutti gli effetti, con un processo in corso. Innocente secondo la Costituzione, come tutti gli imputati, naturalmente.

Avrebbe dovuto rivendicarlo, con orgoglio, ma anche con la dignità che in questo caso è mancata. Avrebbe dovuto ricordare l’articolo 27 della Costituzione, gridando la propria estraneità al reato che gli viene contestato. Invece, muto. Silenzioso e sornione anche il conduttore, che non può ignorare la realtà dei fatti. Eppure le cronache sono state clamorose, fin dall’inizio “dell’affare Amara” con la deposizione dell’avvocato sulla presunta “Loggia Ungheria” e la storia della famosa chiavetta che, dalle mani del sostituto procuratore milanese Paolo Storari, passando da quelle del dottor Davigo membro del Csm, ha fatto uno strano giro dell’orologio, arrivando nella sua versione verbale fino al Presidente Mattarella, come ha testimoniato il vicepresidente del Csm David Ermini. E non si può dimenticare la presenza fisica e l’orgoglio da combattente dell’imputato Davigo nell’aula del tribunale di Brescia il giorno della prima udienza.

Era il 20 aprile scorso, e c’erano le telecamere. Non si sa che cosa il dottor Davigo pensasse di ricavare sul piano mediatico, fatto sta che il suo comportamento aveva stuzzicato persino il bonario presidente della prima sezione del tribunale Roberto Spanò, che a un certo punto si era visto costretto a dirgli paternamente: “È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato”. Un invito inutile. Perché se è vero, come dicono molti magistrati, che la toga in qualche modo ti rimane appiccicata addosso anche quando non frequenti più le aule di giustizia, anche quando sei ormai in abiti “borghesi”, nel caso del dottor Davigo e del suo atteggiamento c’è qualcosa di più e di diverso. Perché in questo processo bresciano c’è il rischio che vada in pezzi del tutto la sua immagine dei tempi che furono, quella dei successi di “Mani Pulite”. Lui lo sa.

Lo ha dimostrato la sua agitazione quando David Ermini nella sua testimonianza ha chiarito che il magistrato, all’epoca membro del Csm, non gli chiese mai di formalizzare la consegna dei verbali secretati di Amara. Verbali che furono mostrati o finirono nelle mani, oltre che di cinque consiglieri, anche di persone estranee al Csm come il presidente della commissione antimafia Nicola Morra, e anche delle due sue segretarie. Quel giorno in quell’aula c’era solo un imputato in difficoltà. Come tanti. Magari anche come Berlusconi quando è stato condannato per frode fiscale. Un grande ex magistrato con la toga e la giustizia nel cuore sarebbe stato generoso, martedi sera. Avrebbe potuto ricordare che il leader di Forza Italia ha scontato la sua pena, pur ritenendola, e non solo lui, ingiusta. E anche che comunque due milioni di persone lo hanno riportato al Senato. Ma non c’è niente da fare. Quale grandezza aspettarsi da uno che non ritiene esistano innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca? Potremmo ricordarcene il giorno della sentenza che assolverà o condannerà l’imputato Piercamillo Davigo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.