L'intervista
Parla Antonio Manzo, ecco cosa disse Antonio Esposito di Amedeo Franco

È il primo agosto 2013. Silvio Berlusconi viene condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per frode fiscale nel processo sui diritti Mediaset. Come tutti i cronisti giudiziari d’Italia, Antonio Manzo, allora colonna portante della mitica Area globale del Mattino coordinata da Pietro Perone, assiste in diretta tv alla sentenza che ha visto piombare in Cassazione le troupe televisive di mezzo mondo, Cnn compresa. Ma Antonio Manzo, oggi direttore de La città di Salerno, è anche l’unico giornalista d’Italia che poco dopo la lettura della sentenza beneficia di un’inattesa telefonata. Quella del presidente del Collegio che ha appena letto la condanna per Berlusconi: il giudice Antonio Esposito. Fu la telefonata che si concluse con la promessa di una intervista sul processo appena celebrato , che lo stesso Esposito avrebbe dato nel corso di un’altra telefonata quattro giorni dopo.
Fu una conversazione di 34 minuti che valse uno scoop al Mattino (“Berlusconi condannato perché sapeva”, era stata l’anticipazione clamorosa del quotidiano napoletano), ma anche una querela per diffamazione al giornale e a Manzo stesso. «Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere, no tu, noi possiamo, potremo dire, diremo nella motivazione eventualmente… tu eri, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva», svelò il giudice nell’intervista. Esposito parlò di una chiacchierata informale, di una manipolazione. Chiese un risarcimento di due milioni di euro. Ma fu sconfitto. Tre anni fa, il presidente della quarta sezione civile del Tribunale di Napoli, Pietro Lupi, diede torto al giudice e confermò come la rivelazione fosse «sostanzialmente corrispondente al contenuto dell’intervista, come si apprezza dall’ascolto della registrazione», corretto il lavoro di editing e prive di fondamento le obiezioni di Esposito. Che, pur in assenza di un’espressa domanda, aveva “incautamente fornito al giornalista” la rivelazione. Non l’unica, a dire il vero. Perché per la prima volta, Antonio Manzo racconta al Riformista molti contenuti inediti di quella lunga telefonata. Che anche stavolta non mancheranno di far discutere.
Sono passati sette anni, Antonio. Ricordi come andarono le cose?
Esposito mi chiamò forse mezz’ora dopo la lettura della sentenza: saranno state le 18.30 o le 19 al massimo. Quando vidi sul display del telefonino il nome del giudice mi alzai in fretta e furia dalla scrivania e raggiunsi la stanza di Alessandro Barbano. Non bussai neppure. Il direttore era a colloquio con altre persone. Gli mostrai il telefonino senza dire una parola. Barbano trasecolò. Mi fece cenno di rispondere».
Tu rispondi e il giudice ti anticipa le motivazioni della sentenza, che sarebbero state depositate dalla sezione feriale della Cassazione soltanto il 29 agosto.
No. Nel corso di quella prima conversazione provo già a sottoporgli qualche domanda sulla sentenza, ma Esposito mi dice che in quel momento non ne vuole parlare. “Ok”, gli rispondo, “però facciamo patto e promessa che l’intervista la farai con me. Se non la fai con un amico, non puoi farla con nessun altro”. Esposito ride, concorda, riaggancia. Ci risentiamo per l’intervista tre giorni dopo, il 4 agosto.
Un amico? È per questo che ti chiamò?
Conoscevo Esposito da trent’anni, sin dai tempi in cui era pretore a Sapri. Quella non era certo la prima telefonata che mi faceva. Né la prima sulla sentenza Berlusconi, né la prima in generale. Mi chiamò, ad esempio, anche per annunciarmi che era stato designato alla presidenza della Sezione feriale che avrebbe giudicato il Cavaliere. O per giudicare positivamente il comportamento composto di Totò Cuffaro, che lui aveva condannato per mafia.
Dunque ti telefonò per condividere la solennità di quel momento? Era stato il primo giudice a condannare definitivamente Berlusconi dopo 88 diversi processi.
Esposito aveva appena letto la sentenza. Ben conoscendo il personaggio, avvertii in lui una comprensibile “accelerazione emotiva”.
Accelerazione emotiva, ma anche giudiziaria. La prescrizione, solo per una parte dell’accusa – frode per l’anno 2002 – sarebbe scattata a detta di autorevoli fonti il 25 settembre. Per la presunta frode del 2003 c’era tempo addirittura fino al 25 settembre dell’anno successivo. Ma sul fascicolo era segnata, sotto la dicitura “urgentissimo”, la data dell’1 agosto. Ti disse qualcosa a proposito di questa discrepanza?
Hai ragione. Difatti gli chiesi anche io di questa accelerazione. Esposito rispose che la convocazione della feriale serviva a evitare la prescrizione. Che era, insomma, un atto dovuto. Doveva fissare l’udienza subito, il prima possibile.
Ma Esposito sapeva che in realtà sarebbe scattata solo a settembre?
Mi rispose che dovevano agire sulla base dell’indicazione della sezione di provenienza, che indicava come scadenza il primo agosto. “Se si accorgono che il fascicolo sta per andare in prescrizione”, mi disse, “lo mandano alla feriale, capito?”
Obiettasti qualcosa?
Sì, gli dissi che quel termine oscillava, che la scadenza in realtà oscillasse. Sul Mattino del 21 luglio, poco prima della sentenza, avevo scritto infatti che da calcoli milanesi era emerso che la prescrizione sarebbe scattata il 13 settembre.
Esposito che ti rispose?
Mi disse testualmente: “Questo non lo so”.
Non lo sapeva. Quindi si limitò a eseguire senza aver fatto i calcoli?
Ribadì che doveva fissare l’udienza sulla base delle indicazioni della sezione di provenienza, che aveva affidato tutto alla feriale per evitare la prescrizione del primo agosto. Precisò che aveva fissato molte udienze oltre a quella di Berlusconi. Disse, alla lettera, di quei processi: “Li acchiappiamo per i capelli: di qua non si scappa, non esiste proprio”
La condanna in appello era del maggio 2012. Dopo un anno e mezzo arrivò la sentenza definitiva in Cassazione. Un record
Glielo feci notare. “Hanno fatto le cose a tamburo battente, proprio per evitare la prescrizione”, commentò. “Per me il processo di Berlusconi era un processo come gli altri, ma che dovevo fare? Dovevo fare finta di non vederlo? Era una strada obbligata, hai capito insomma?”, si difese. “Certo”, aggiunse, “si potevano fare i calcoli dopo, ma io devo stare a quello che mi dice la sezione di provenienza. Io non lo posso sapere se Milano ha sbagliato oppure no, giusto?”.
Neanche lui sembrava troppo convinto delle date, o sbaglio?
Rispose che a Milano avevano fatto i calcoli anche sulla base delle interruzioni perché il processo era stato interrotto diverse volte. “È andato due volte in Cassazione, due volte alla Corte costituzionale”, precisò.
Quindi conosceva bene l’iter processuale.
Certamente. Semplicemente non aveva rifatto i calcoli. Ma io a quel punto della telefonata insisto: “Tutti d’accordo sulla data”?
E cosa risponde il giudice?
“No, quella spetta solo a me, va bene? Sono io che fisso i processi”.
Quindi avrebbe potuto spostare la data in avanti, in teoria.
Sì, poteva farlo. Anche se l’indicazione era quella dell’1 agosto. Mi spiegò peraltro che dal 10 agosto in poi, in ragione dei turni e delle ferie concordate, avrebbe presieduto il collegio un altro collega, Marasca.
Se non avesse corso, sarebbe stato un altro collegio a emettere la sentenza. E non il suo. Chiaro.
Abbastanza chiaro.
Da quello che si intuisce dalle conversazioni del giudice Franco con Berlusconi, arrivare alla sentenza non fu facile. Esposito te ne parlò?
Mi disse che i membri del collegio erano stati in Camera di Consiglio per sette ore consecutive: ci fu solo una breve pausa per dei panini. Vennero analizzati tutti e 91 motivi di ricorso degli imputati, di cui 46 riguardavano il solo Berlusconi. “Ma questo non darlo, non darlo”, sottolineò.
Tra i colleghi di Esposito c’era anche il relatore della sentenza, il giudice Franco. Ti disse per caso se anche lui aveva condiviso la sentenza di condanna? Se il verdetto era stato unanime?
“Questo non te lo posso dire”, mi risponde. Ma a questo punto aggiunge un dettaglio importante: “È uscita un’indiscrezione che mi indurrà a fare una segnalazione al Consiglio dell’ordine”.
E qual era l’indiscrezione?
Mi rispose e ti rispondo: “L’indiscrezione era relativa alla linea morbida del relatore, che si era contrapposta alla rigida chiusura ermetica del presidente, hai capito?”. Si riferiva a un’indiscrezione apparsa su Il Giornale.
Capito benissimo, il relatore era Amedeo Franco. In pratica Esposito alluse al disaccordo sulla condanna che sarebbe emerso solo oggi nelle parole consegnate dal defunto relatore a Berlusconi. L’indiscrezione lo aveva preoccupato, sembra.
Esattamente. E ti spiego perché.
Spiegami.
Esposito parlò di questa indiscrezione con il primo presidente della Cassazione. “Ma ci siamo detti: vabbè, lasciamo stare”, mi racconta. “Io non ho alcun interesse ad accendere il fuoco”, conclude.
Molto chiaro. Non voleva che emergesse il disaccordo, altrimenti sarebbe saltato il processo. Corretto?
Ciononostante, mandò una smentita al Giornale. Ma non approfondii oltre, perché in quel momento volevo arrivare alla sentenza.
Peraltro, pare che dei membri di quel collegio, Franco fosse l’unico specializzato in reati tributari. Sulla base della tua lunga conoscenza di Esposito, sai dirci se avesse avuto qualche familiarità professionale con la materia fiscale in passato?
Che io sappia non se n’è mai occupato. Era sempre stato un “cane da presa”, se mi puoi passare l’espressione colorita, in materia di reati urbanistici.
Come ha documentato il nostro giornale, Franco andò da Berlusconi nel 2014 e gli parlò di un “plotone d’esecuzione”, di una sentenza vergognosa e calata dall’alto. Che firmò anche se non condivideva. Esposito ti fece mai cenno alle perplessità del giudice Franco, che molti stanno tentando di screditare post-mortem?
No. Non mi disse nulla del genere. Fatto è che nei giorni precedenti la celebrazione del processo, Esposito mi chiamò.
E che cosa ti disse? Ricordi qualche dettaglio che potesse far sorgere il minimo sospetto di un giudizio pilotato?
Nel corso di quelle telefonate cercai di capire qualcosa, innanzitutto, sul tipo di processo che avrebbe fatto. Ma per motivi di legittimo riserbo, mi astengo dal fare valutazioni che oggi potrebbero apparire come presunti pregiudizi.
Esposito presentò a tal proposito un esposto (rimasto senza reati né indagati e quasi archiviato) contro le dichiarazioni rese all’avvocato Bruno Larosa (al tempo tra i difensori di Silvio Berlusconi) da tre dipendenti dell’hotel di Lacco Ameno, dipendenti di Domenico De Siano, il coordinatore regionale di Forza Italia. I quali riferirono di aver sentito Esposito, nel 2014, definire Berlusconi “una chiavica”. Ne parlò mai in questi termini anche con te?
Posso dirti che il suo giudizio era tutt’altro che equanime.
Dunque reputi anche tu che Esposito potesse insultare Berlusconi con questi epiteti?
Non credo che Esposito si spingesse a tanto, nel pubblicizzare un sentimento politicamente negativo.
Lo odiava politicamente quindi?
Non credo che gli fosse simpatico, dato umano. Ma ribadisco: oppongo il mio riserbo.
A febbraio scorso il tribunale civile ha messo in discussione, nella sostanza, quella sentenza definitiva della Cassazione. Che te ne pare?
È la conferma che probabilmente un collegio composto anche da esperti in reati tributari e, quindi, con attitudini professionali più inclini alla valutazione di reati economico-fiscali avrebbe potuto decidere diversamente.
Torniamo alla telefonata. A questo punto arriva il momento clou. Quello in cui il giudice ti rivela il cuore del ragionamento che ha portato alla condanna di Berlusconi, che tutti apprenderanno soltanto il 29 agosto, una volta depositate le motivazioni. Come è andata di preciso?
Io voglio sapere della sentenza. Perciò vado dritto al punto e gli chiedo: “Senti una cosa, in Italia negli ultimi 20 anni è passato un principio molto contestato: quello del «non poteva non sapere». È giuridicamente sostenibile”?, gli chiedo.
Ed Esposito?
“Ma no, assolutamente no. Che significa non poteva non sapere? Bisogna vedere la valutazione di fatto. Bisogna vedere quale posizione occupi. Se hai portato un certo contributo a quello che ha portato all’evento. Non poteva non sapere può significare tutto o non significare niente”, fa lui.
E come arrivi a ottenere la rivelazione?
“No, non mi portare su questo argomento”, dice lui. “Ma io, ma io. Ho capito”, rispondo. Poi il giudice fa una pausa e mi dice tutto: “Noi non andremo a dire quello non poteva non sapere. Noi possiamo, potremo, diremo nella motivazione: eventualmente tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Non è che non potevi non sapere perché tu eri il capo. Non è detto che devi sapere se tu sei il capo, o no? Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio e Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito, insomma. E allora è un po’ diverso questo fatto. Questo in sentenza noi lo diremo, va bene?”.
Sono parole piuttosto inequivocabili. Ma allora perché ti fece causa?
Nell’intervista che pubblicai, anteposi a questa rivelazione una domanda. «Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?». Esposito disse che nella conversazione non era stata formulata. Ma come spiegai io, come spiegò il Mattino, e come confermò il giudice della sezione civile del Tribunale di Napoli, si trattò di un’operazione di editing, che inframmezzava quella lunga risposta, e chiariva meglio ai lettori la relazione tra la risposta stessa e l’argomento trattato.
Cosa disse esattamente il Tribunale a proposito di quello scoop?
Il tribunale spiegò che il giudice era consapevole di avermi rivelato la motivazione della condanna di Berlusconi e non poteva lagnarsene. «Il dottor Esposito – scrisse il Tribunale di Napoli – doveva necessariamente essere consapevole di ciò» e ricorda anche che il magistrato «non riesce a trattenersi ed in pochi secondi pronuncia quelle frasi che non possono che rivolgersi ai giudici che devono scrivere la motivazione del caso Mediaset».
Esposito contestò anche che si trattasse di un’intervista. Parlò di una chiacchierata con un amico.
Sai come cominciò quella conversazione?
Mi butto. Ciao?
Spiritoso (ride, ndr.). No, cominciò così: “L’unica persona con cui puoi fare un’intervista seria sono io”. Così gli dissi. E ci mettemmo a ridere.
L’indomani, quando pubblicasti l’intervista, non doveva essere altrettanto di buon’umore, immagino.
Mi chiamò alle 9 del mattino. Era infuriato. “Hai scritto cose che non ti ho detto”, urlò. Poi attaccò.
Era già stato redarguito?
Non ne ho certezza, ma penso proprio di sì. Dai vertici dello Stato e del Csm.
L’intervista fece subito scalpore. Finisti sotto il fuoco incrociato di alcuni colleghi. Un po’ come Franco oggi. Perché?
Perché in molti lessero nella mia intervista, o meglio vollero leggere per motivi di “parrocchia”, un atto di sabotaggio. Una bomba scagliata contro il processo del secolo. La storia ha dimostrato che si trattò invece di una semplice operazione giornalistica. Raccolsi una rivelazione e la condivisi con i lettori. Puro e semplice giornalismo.
A farti la guerra, fu in particolare il Fatto quotidiano. Che ritagliò pezzi di conversazioni di quella intervista che potessero mettere in cattiva luce te, e in buona luce Esposito. Perché lo difesero a tuo modo di vedere?
Perché Esposito aveva condannato Berlusconi. L’unico che ci era riuscito. Esposito si candidava così a diventare la punta avanzata dell’antiberlusconismo nazionale. A prescindere dal merito di quell’intervista, andava difeso. Da lì a breve sarebbe subentrata l’applicazione, peraltro retroattiva, della legge Severino che avrebbe segnato l’estromissione di Berlusconi dal Parlamento.
Fatto sta che a febbraio del 2014 il Csm aprì il processo contro Esposito, proprio per aver violato il dovere del riserbo con l’intervista che ti aveva concesso. Il Csm lo assolse dieci mesi dopo con motivazioni lunghe 50 pagine. Che idea ti sei fatto di quella sentenza, visto e considerato che il Tribunale tre anni dopo riconobbe invece le responsabilità del giudice nella causa intentata contro di te?
Il Procuratore generale aveva chiesto per Esposito la censura. Ma il Csm lo salvò.
Quando il Csm salvò Esposito, pensasti: “cavolo, qui perdo la causa, i giudici non si fanno la guerra tra loro?” Eri preoccupato insomma?
Preoccupato sì. Sospettoso no. “C’è un giudice a Berlino”, pensai. Nonostante le molte lezioni dal vivo che ebbi la fortuna di avere, in materia, dal presidente Francesco Cossiga, restai fiducioso.
Ha mai risentito Esposito dopo quella lite seguita all’intervista?
No, mai più.
Ma in definitiva, reputi che il giudice Esposito provò umanamente soddisfazione in cuor suo, per aver condannato Berlusconi, o che in fondo ne fu in parte rammaricato come Franco?
Ti rispondo con una citazione di Leonardo Sciascia: “I giudici che hanno un potere delegato dal popolo debbono soffrire il loro potere, invece di gustarlo”.
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