La tesi, alquanto mediatica e suggestiva, secondo cui lo Stato è venuto a patti con Cosa nostra per far cessare le stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso ha origini lontane. Prima dell’inchiesta “Trattativa Stato-mafia”, costata milioni di euro e rivelatasi un flop, la Procura di Palermo nel 1998 aveva avviato “Sistemi criminali”, ipotizzando l’esistenza di un disegno per destabilizzare il Paese dietro tutte le stragi, dalla stazione di Bologna a Capaci e quindi a via D’Amelio.

Sistemi criminali” si chiuse, però, con un nulla di fatto. Passò qualche anno e nel 2000 i Pm tornarono alla carica, indagando Totò Riina, il “capo dei capi”, Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, e il medico Antonio Cinà. Anche in quel caso la tesi era suggestiva: Riina, con la mediazione Ciancimino e l’aiuto di Cinà, nel 1992 avrebbe deciso di ricattare lo Stato se quest’ultimo non avesse esaudito le richieste dei boss. Non essendo stati identificati i politici destinatari delle minacce mafiose, nel 2004 i pm furono costretti a nuova archiviazione. La svolta era dietro l’angolo, grazie a Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che nel 2008 consegnò ai pm il “papello” con l’indicazione delle richieste dei mafiosi per porre fine alla mattanza, e al super pentito, spesso poco lucido nel racconto, Giovanni Brusca. Ciancimino, va ricordato, verrà poi condannato per calunnia e gli accertamenti tecnici dimostreranno che il papello era un tarocco.

Le sue rivelazioni, comunque, avevano nel frattempo permesso ai magistrati di riaprire in pompa magna le indagini e di mettere nel mirino, oltre ai boss mafiosi, gli ex ufficiali del Ros, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, e l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, colui che di fatto avrebbe ‘trattato’ la resa dello Stato, tramite i carabinieri, con Cosa nostra.
Ciancimino diventò subito l’icona dell’antimafia, passando da un salotto televisivo all’altro. Grazie ai suoi racconti, come detto delle calunnie, verranno scritti decine di libri che faranno il successo di molti giornalisti. Successo, inteso come carriera, che riguarderà nel tempo i Pm titolari del fascicolo. Solo per fare qualche nome, Nino Di Matteo andrà al Consiglio superiore della magistratura, Roberto Scarpinato diventerà senatore in quota M5s, Antonio Ingroia fonderà un partito, Roberto Tartaglia verrà promosso vice capo dipartimento a Palazzo Chigi, collaborando con Mario Draghi prima e adesso con Giorgia Meloni.

Il processo di primo grado, con l’accusa di “minaccia ad un corpo politico dello Stato”, nel caso specifico i governi che si erano succeduti dal ‘92 fino al ’94, inizierà nel 2013. La ‘pistola fumante’ venne trovata nella mancata proroga, a novembre del 1993, uno dei punti del “papello”, da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso del 41 bis a circa 300 detenuti. Di questi, però, solo 18 appartenevano ad associazioni mafiose e, come si appurerà, anche di modesto spessore criminale e di cui la stessa Procura aveva chiesto la revoca del carcere duro. Ma tant’è.

Mannino decise di essere processato da solo, scegliendo il rito abbreviato. Venne assolto in via definita nel 2020 “per non aver commesso il fatto”: nessuna prova che avesse condizionato Conso nelle sue scelte, il quale aveva agito solo seguendo la legge. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, altro imputato eccellente, sarà invece scagionato dall’accusa di falsa testimonianza dopo che i pm erano arrivati ad intercettare una sua telefonata con il capo dello Stato Giorgio Napolitano.

L’unico politico rimasto con i carabinieri sul banco degli imputati sarà quindi il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, accusato di aver proseguito al posto dei Ros la ‘trattativa’ con il governo Berlusconi.
La scorsa settimana, dopo un quarto di secolo, la pietra tombale su questa vicenda, con l’assoluzione di tutti gli imputati. I tanti delusi dall’esito del processo, invece di farsene una ragione, hanno subito cercato il rilancio, rispolverando una testimonianza di Mori al processo di Firenze sulla strage di via dei Gergofili dove l’ex generale aveva parlato di ‘trattativa’.

I carabinieri, sul punto, non avevamo mai nascosto di aver iniziato in quegli anni dei colloqui investigativi, come se ne sono sempre fatti fin dai tempi delle Brigate Rosse, con Vito Ciancimino. Colloqui fatti alla luce del sole e dei quali erano informati gli stessi vertici della Procura di Palermo. In sostanza, un tentativo da parte dei Ros per arrivare alla cattura dei boss: se Ciancimino li avesse aiutati a risalire ai latitanti, in cambio avrebbero protetto la sua famiglia da eventuali ritorsioni. Ma nulla di più. A quella proposta Ciancimino si adirò perché avrebbe voluto la garanzia, ovviamente impossibile, dell’assoluzione da tutte le accuse.
Che il teorema dei Pm di Palermo facesse acqua da tutte le parti, lo si poteva capire leggendo la sentenza d’appello del “Borsellino Quater” del 2019. Senza entrare nel merito della trattativa, escluse categoricamente che potesse essere quello il movente della strage di via D’Amelio. Per i giudici di Caltanissetta, i mafiosi avevano voluto eliminare Borsellino in quanto intenzionato ad indagare sui rapporti fra Cosa nostra e settori della grande impresa. I Ros, sotto la supervisione di Giovanni Falcone, prima quindi di essere accusati di aver ‘trattato’ con i mafiosi, gli avevano preparato il dossier “mafia appalti”, prontamente archiviato qualche giorno dopo la sua morte, in cui si ipotizzava anche il coinvolgimento di soggetti vicini ai magistrati in servizio al Palazzo di giustizia di Palermo.

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Giornalista professionista, romano, scrive di giustizia e carcere