Dedichiamo questa sentenza della Cassazione, che assolve tutti gli imputati del “processo trattativa”, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Non nel loro nome” qualcuno ha costruito questo processo lungo trent’anni. Ora è finita. Per sempre. Non hanno proprio commesso il fatto, neppure per ragioni umanitarie, come aveva ipotizzato la Corte d’assise d’appello. Ecco la parola fine del “processo trattativa”. Non solo Marcello Dell’Utri, ma anche i tre ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni non hanno mai stretto un patto con la mafia. I soli colpevoli, oltre ogni ragionevole dubbio, sono coloro che il processo-farsa, il processo-bufala, il processo-calunnia, hanno voluto e costruito.

Escono distrutti dalla sentenza della sesta sezione della Cassazione un gran numero di giudici, e gli ex pubblici ministeri Antonio Ingroia, Nino De Matteo, l’ex pg Roberto Scarpinato con i suoi colleghi della procura generale che hanno voluto anche il processo di legittimità. E insieme a loro tutti i giornalisti, scrittori, registi e compagnia cantando che in tutti questi anni, ne sono passati trenta da quel famigerato 1993, hanno lucrato e fatto carriere sulla “trattativa” che non c’era. Insieme agli imputati e ai loro difensori, escono a testa alta i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, lo stesso magistrato che nell’ottobre del 2019 aveva salvato la città di Roma dall’ignominia di esser conosciuta nel mondo come capitale della mafia, cancellando il reato di 416 bis agli imputati del processoMondo di mezzo” Salvatore Buzzi e Massimo Carminati.

Un punto fermo è l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Se ne facciano una ragione i due Luca pm di Firenze che ancora inseguono personaggi improbabili e imbroglioni come Giuseppe Graviano e Salvatore Baiardo. Il leader di Forza Italia non solo, ce lo dicono le sentenze, non è stato avvicinato da Marcello Dell’Utri perché subisse il ricatto della mafia, ma non ha messo neppure il proprio governo a disposizione di Totò Riina con un ammorbidimento del regime di carcere duro. Anzi, lo diciamo con rammarico, perché il 41-bis è una forma di tortura, fu proprio il primo governo presieduto da Silvio Berlusconi a prolungare all’infinito quel provvedimento che avrebbe dovuto essere provvisorio. Ma ci sono due interi governi, e due ex presidenti della Repubblica, a uscire riabilitati. Non risarciti, questo mai, purtroppo. Ma per una volta la storia non la scriveranno Travaglio e i suoi amici pm.

La memoria è importante. In principio fu il 1992, con i partiti di governo presi di mira dai “capitani coraggiosi” del pool della procura di Milano, e a Roma la sentenza del maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone che seppe colpire la mafia come nessun governo aveva potuto fare. E i boss dei corleonesi, tutti liberi e latitanti, che diedero l’assalto allo Stato a suon di bombe come mai era capitato. Prima il segnale alla politica, con l’assassinio di Salvo Lima, il 12 marzo di quell’anno, e poi il colpo al cuore della magistratura, quella che di più aveva osato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La strage di Capaci il 23 maggio e quella di via D’Amelio il 19 luglio. A terra due magistrati che non hanno avuto successori. Se potessero parlare, da dove sono, punterebbero il dito contro molti di coloro, soprattutto toghe, che tengono la loro foto sulla scrivania, quelli che dicono sempre “Paolo e Giovanni”, e direbbero ”non nel mio nome”.

“Non nel loro nome”, sarebbe mai iniziata questa inchiesta che ha portato fino alla sentenza di ieri. E che ha le impronte digitali di ex pm famosi come Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e il senatore Roberto Scarpinato. Tutti convinti, purtroppo in perfetta buona fede, che un banale provvedimento del ministro della giustizia Giovanni Conso, uno stimato giurista che fu guardasigilli in due governi di centrosinistra, fosse il frutto di un ignobile patto tra lo Stato e la mafia. Un atto burocratico che aveva semplicemente messo ordine negli istituti di pena italiani, dopo che, nell’estate del 1993, una retata violenta e maldestra aveva rimpinzato le carceri speciali di Pianosa e Asinara di detenuti di ogni tipo, trattati come mafiosi anche quando non lo erano, e torturati in una sorta di “pentitificio di Stato”. Lì, nell’isola di Pianosa, era stato costruito il “pentito” farlocco Enzino Scarantino, con il “più grande depistaggio di Stato”, come ormai scritto in sentenza.

Il ministro Conso, nel novembre del 1993, aveva semplicemente messo ordine, cercato di rimediare. Il suo non era stato un semplice gesto spontaneo, è vero. Diversi giudici di sorveglianza e la gran parte dei cappellani delle carceri lo avevano sollecitato a esaminare meglio ogni singolo caso. Perché, nella furia repressiva di quell’estate appena trascorsa, avevano applicato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario anche a persone che con la mafia non avevano nulla a che fare e che quindi non andavano tenuti isolati. C’era stata anche una importante sentenza della Corte costituzionale che andava applicata. Fu ligio alla legge il ministro Conso, quindi. È nato così, cari magistrati, e giornalisti e scrittori e registi che sul “processo trattativa” avete sviluppato carriere e successi e campato in tutti questi anni, il famoso provvedimento con il cui guardasigilli, unico competente a farlo, non aveva rinnovato trecento provvedimenti di 41-bis.

Mafiosi? Pochi e di piccolo calibro. Ma i seguaci di un altro farlocco come Stefano Ciancimino interpretarono, vollero interpretare, il gesto burocratico come un “segnale” mafioso, l’incontro tra le cosche che sparavano e mettevano bombe, e quelle di Stato. Così nasce il “processo trattativa”, con il pensiero che personaggi politici (della Prima repubblica) come Nicola Mancino e Giuliano Amato e Calogero Mannino e soprattutto Giovanni Conso, con la regia anche di presidenti della Repubblica come Oscar Maria Scalfaro e Giorgio Napolitano, cercassero di salvarsi la vita trattando con la mafia. Gli strumenti operativi, gli “utili idioti” dell’operazione sarebbero stati quelli che indossavano la divisa della benemerita, i carabinieri. Il generale Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, con una serie di iniziative scorrette tra cui mancati arresti e mancate perquisizioni di abitazioni di capimafia, avrebbero trescato con i vertici di Cosa Nostra. Tutti assolti. Non così i veri colpevoli, i registi dell’operazione “trattativa”.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.