Con buona pace dei negazionisti di turno, la comunità scientifica internazionale è unanime nel ritenere che il cambiamento climatico caratterizzato dall’anomalo innalzamento della temperatura del pianeta, principalmente per effetto delle emissioni antropiche in atmosfera dei cosiddetti gas serra (GHG), rappresenti un reale pericolo per la salute, l’economia, gli assetti geopolitici e, in definitiva, per la vita della popolazione mondiale.

In questo contesto già nel dicembre 2015, alla COP21 di Parigi, è stato firmato un accordo internazionale che fissa l’obiettivo di contenere l’aumento globale della temperatura del pianeta al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, e possibilmente limitarlo a 1,5 gradi. Il principale strumento per il conseguimento di questo obiettivo è la transizione energetica, un processo volto a spostare l’approvvigionamento energetico da fonti di energia tradizionali, come il carbone, il petrolio e il gas naturale, verso fonti di energia rinnovabile e sostenibile, come il solare, l’eolico e l’idroelettrico.

Al di là di tutte le problematiche tecnologiche ed economiche, la transizione energetica costituisce un processo ineluttabile ma che presenta anche alcuni rischi sociali che devono essere attentamente considerati e gestiti.

Non tutti sanno ad esempio che nel 2021 circa 750 milioni di persone – pari a circa il 10% della popolazione mondiale – non avevano alcun accesso all’elettricità, soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nel Sud Est Asiatico, e che, secondo l’International Energy Agency (IEA), tale numero è destinato a ridursi solo di poco – a 670 milioni di persone – nel 2030. La “povertà energetica” costringe all’utilizzo di fonti di energia tradizionali, come la legna da ardere o il carbone, con effetti inquinanti e dannosi per la salute. L’assenza di elettricità, inoltre, ostacola l’accesso ad un’istruzione di qualità e limita fortemente qualsiasi attività produttiva.

Di fronte all’assoluta mancanza di elettricità, la discussione sulle fonti, fossili o rinnovabili, assume inevitabilmente altri contorni e significati. Analogamente occorre considerare gli impatti sulle comunità dipendenti dall’energia tradizionale: una rapida transizione può infatti avere un effetto negativo su queste comunità, portando a declini economici e sociali.

Ad esempio la chiusura di industrie legate alle fonti di energia tradizionali, come le miniere di carbone o le raffinerie di petrolio, può portare alla perdita di posti di lavoro in queste comunità. Occorre quindi che la progressiva evoluzione del paradigma energetico sia accompagnata da programmi di riqualificazione e formazione per aiutare i lavoratori ad acquisire competenze per settori emergenti “green”. Anche per gli utilizzatori la transizione energetica comporta rischi di natura sociale. Si pensi all’aumento del costo dell’energia legato ai nuovi investimenti in infrastrutture e tecnologie. Se non gestita in modo equo, la transizione energetica può quindi portare a nuove forme di disuguaglianza. È dunque necessario adottare misure per rendere l’energia rinnovabile accessibile anche alle fasce di popolazione a basso reddito.

Com’è noto, la produzione di energia rinnovabile richiede spazio per l’installazione di infrastrutture come parchi eolici, centrali solari e idroelettriche. Questa richiesta di spazio può portare a conflitti per l’uso delle terre, specialmente nelle aree densamente popolate o nelle regioni ecologicamente sensibili. Ancora: alcuni Paesi potrebbero vedere ridotta la propria sovranità energetica, diventando più dipendenti dalle importazioni di tecnologie o risorse chiave – si pensi al rischio di dipendenza dalla Cina per i minerali rari – con l’insorgere di rischi sia geopolitici che economici.

Del resto, quello della sicurezza energetica è un problema che ben conosciamo come conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina per quanto riguarda petrolio e gas. Ed è un rischio che permane tale e quale anche nel ricorso a fonti rinnovabili di energia. La lotta al cambiamento climatico deve dunque affrontare quello che il World Energy Council definisce “il trilemma dell’energia”, cioè la necessità di ottimizzare le tre dimensioni fondamentali rappresentate da sicurezza energetica, sostenibilità ambientale ed equità energetica. Se a questo aggiungiamo il fatto che le crisi (economiche, produttive, politiche, sociali) nella storia sono spesso state asimmetriche, coinvolgendo cioè alcuni Paesi e non altri, alle tre dimensioni sopra indicate se ne aggiunge una quarta: quella della competitività.

Ricordiamo infatti che in Europa, durante il primo periodo della guerra in Ucraina, il prezzo del gas è arrivato ad essere quattro volte superiore a quello praticato negli USA, paese autosufficiente sotto il profilo energetico. In questo contesto la “Just Transition” o “Transizione Equa e Giusta”, intesa come “processo verso un’economia ambientalmente sostenibile, che deve essere ben gestita e contribuire agli obiettivi del lavoro dignitoso per tutti, dell’inclusione sociale e dell’eliminazione della povertà” (Organizzazione internazionale del lavoro, 2015) rappresenta un approccio cruciale per guidare il passaggio verso un’economia sostenibile anche socialmente.

La realizzazione di una transizione giusta passa inevitabilmente da un differente approccio tra Paesi con economie avanzate e Paesi con economie emergenti. Nei Paesi con economie avanzate le priorità sono la riduzione delle emissioni di CO2 da un lato e, dall’altro, lo sviluppo di nuovi prodotti, infrastrutture, tecnologie e stili di vita, assicurando che i nuovi settori garantiscano lavori dignitosi e impatti positivi per le comunità. Nei Paesi emergenti, invece, l’esigenza globale della riduzione delle emissioni deve conciliarsi con l’accesso all’energia e il diritto allo sviluppo. La salvaguardia del pianeta non può dunque che andare di pari passo con la lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Qualunque diverso approccio non potrebbe che portare a conseguenze disastrose sia per l’uomo e che per l’ambiente. L’estremismo ambientale, fatto di slogan e di visioni unilaterali, così come la rivendicazione al diritto allo sviluppo economico a prescindere da qualsiasi tutela ambientale sono approcci miopi ad un problema tanto complesso quanto decisivo per la sopravvivenza dell’umanità.

La Just Transition è la via per riequilibrare l’economia e l’ambiente, garantendo al contempo che nessuno venga lasciato indietro. È una risposta pragmatica alla sfida dei cambiamenti climatici e alla necessità di ridurre le emissioni di carbonio. Sostenendo i lavoratori e le comunità colpite dalla transizione e investendo nelle energie rinnovabili e nelle tecnologie verdi, possiamo creare un futuro sostenibile e prospero per tutti. Come ha affermato Papa Francesco in occasione della giornata mondiale dell’ambiente nel giugno scorso: “Custodire la terra è custodire l’uomo”.

Marco Seracini

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