Non serviva essere lungimiranti per capire che fine avrebbe fatto la “epocale” riforma della giustizia di cui si vagheggiava qualche mese fa: bastava esaminarne il contenuto, che non era epocale manco per niente, e poi assistere a come la classe politica e di governo – salve le solite eccezioni che però ottengono quel che possono, e cioè poco o nulla – rinculava davanti all’offensiva della piovra giudiziaria che mascariava i piccoli tentativi riformatori spiegando che erano regali alla mafia e alla corruzione e, ovviamente, intollerabili attentati all’autonomia e all’indipendenza della magistratura.

Ancora una volta, i destinatari di questa agitazione sostanzialmente eversiva, a cominciare dalla ministra guardasigilli, hanno creduto per buona pace di riproporre il solito atteggiamento abdicatario per cui le riforme possibili sono quelle che ricevono il benestare giudiziario: come se già questo non denunciasse il problema capitale, e cioè il fatto che la magistratura si è costituita in una centrale di usurpazione che ha imposto con la violenza dell’intimidazione, del ricatto, quando non direttamente dell’aggressione penale, il proprio potere intromissivo, assolta da qualsiasi controllo di legalità.

Ma mentre non giova alle riforme, che infatti fan questa fine, l’idea che si debba legiferare in argomento di giustizia per il tramite di una trattativa Stato-Magistratura perpetua i segni della malattia italiana: la quale sta, in primo luogo, nell’incapacità di riconoscerla. Nell’incapacità di riconoscere che una riforma libera dal gradimento preventivo della magistratura non è necessariamente buona, ma è certamente cattiva quella che vi soggiace o, peggio, lo richiede.