La Trattativa, quella con la “T” maiuscola tra i boss e corpi deviati dello Stato, destinata a favorire la mafia fino a far assassinare il giudice Paolo Borsellino, non ci fu. Anzi, le attività che pubblici ministeri come Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, e insieme a loro i giudici che emisero la sentenza di condanna di primo grado, avevano interpretato come aiuti alla mafia, al contrario erano gesti di grande umanità e generosità finalizzati a fermare le stragi e salvare vite umane. Più chiare di così le motivazioni della sentenza che il 23 settembre di un anno fa aveva mandati assolti gli uomini del Ros e il senatore Marcello Dell’Utri non potrebbero essere. Se ne facciano una ragione anche Marco Travaglio e i suoi ragazzi-spazzola di redazione. Anzi, è probabile che, scrivono i giudici dell’appello in sentenza, l’accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino sia stata determinata dall’interesse che il magistrato aveva mostrato, e prima di lui Giovanni Falcone e anche Tonino Di Pietro, per quel dossier mafia-appalti che fu archiviato dalla procura di Palermo.

Poi naturalmente, sgomberato il campo dal teorema “Trattativa”, possiamo qualificare come meglio ci aggrada, il tentativo del generale del Ros Antonio Subranni, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, di scardinare dall’interno Cosa Nostra e fermare le bombe stragiste attraverso il contatto con Vito Ciancimino. Possiamo anche chiamarlo “trattativa”, quel rapporto, ma le intenzioni e le finalità opposte a quel che ipotizzavano i pubblici ministeri restano. E anche la qualificazioni delle azioni dei carabinieri: non erano mafiose ma anti-mafiose, nessuna complicità con i boss quindi. Basta saper leggere, del resto. “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa, e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, furono mossi piuttosto da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato”.

Nessuna complicità, ma anche nessuna “zona grigia”, come pare alludere, ancora oggi, il consigliere del Csm Nino Di Matteo, uno di coloro che da pm hanno creduto di più al fatto che negli anni 1992-1993 lo Stato abbia chinato il capo davanti a Totò Riina per salvare, con la complicità di carabinieri amici della mafia, la vita a qualche ministro. Assoluzione totale quindi, sul piano penale, agli uomini del Ros, assolti perché il fatto non sussiste. Ed encomio per la finalità generosa delle loro intenzioni. Ma anche vigorosa tirata d’orecchi sul metodo, una vera mozione di tipo moralistico: “Un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio e ai loro compiti istituzionali”. Se si deve giudicare questa frase, e altre di cui sono infarcite le 2.971 pagine della sentenza, la sensazione è che i giudici presieduti da Antonio Pellino abbiano quasi versato un tributo a quella parte dell’opinione pubblica interpretata ancora ieri dall’ex pm Di Matteo, che ha recriminato il fatto che molte vittime di mafia abbiano anche pagato la durezza dello Stato. Forse dimenticando che nei confronti dei “pentiti”, anche i più sanguinari, lo Stato è stato invece morbidissimo, e nessun magistrato si è permesso, a ogni loro scarcerazione, di rinfacciare il sangue versato. Discorso analogo potremmo fare sul trattamento, veramente ingeneroso, riservato dalle motivazioni della sentenza, al senatore Marcello Dell’Utri. Trattato come amico di mafiosi sulla sola base del suo rapporto con Vittorio Mangano, quasi per dovere dopo la sua condanna per “concorso esterno”. Dopo ventiquattro anni una sentenza è costretta a escludere da qualunque orizzonte la figura di Silvio Berlusconi, che in questo processo avrebbe dovuto svolgere un doppio ruolo. Quello del Presidente del consiglio vittima di un ricatto della mafia, ma la sentenza lo esclude perché Dell’Utri non avrebbe percorso quell’”ultimo miglio” mettendolo a conoscenza delle pressioni di Totò Riina. Ma anche quello del premier che avrebbe avuto il ruolo di agevolare i boss con provvedimenti clementi del suo governo. Cosa che non fece.

Non, come sostengono i ragazzi-spazzola di Travaglio, solo perché quel governo durò poco, ma perché non ne aveva alcuna intenzione, tanto che prolungò immediatamente il 41-bis che, nelle previsioni del legislatore del 1992, avrebbe dovuto, in quanto provvedimento emergenziale, avere una durata limitata. La sentenza distrugge anche la credibilità del personaggio più amato dal Fatto quotidiano, un mafioso assassino di nome Giuseppe Graviano. Il quale ogni tanto, dopo essersi scolato una birra nel carcere speciale ( è ironico, caro Marco Lillo, rilassati), racconta favole e barzellette sul nonno (che opportunamente non c’è più) che avrebbe dato soldi a Berlusconi per partecipare ai suoi primi investimenti a Milano. E si porta in giro per l’Italia i pm di Firenze, i quai ritengono che queste farneticazioni siano ottimi indizi per addossare al presidente di Forza Italia la responsabilità di aver commissionato le stragi. Ecco come trattano queste “testimonianze” i giudici del processo d’appello “Trattativa”: dichiarazioni “di dubbia valenza”, perché rese da un “soggetto enigmatico” che “non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione”.

Ma intanto, forse anche grazie all’iniziativa degli uomini del Ros, già dall’inizio del 1993 era stato arrestato Totò Riina e, dopo gli ultimi colpi di coda delle bombe di Milano e Firenze, le stragi erano cessate. Ma è rimasta la legislazione speciale, e insieme la parte più controversa, anche dal punto di vista storico, di quel che accadde in quei giorni, mentre si susseguivano gli ultimi governi della prima repubblica, sull’oggetto dell’inesistente “Trattativa”. Cioè la decisione del ministro guardasigilli Giovanni Conso di riportare al trattamento ordinario una serie di detenuti al 41-bis che non erano certo boss mafiosi di prima fila. Chi c’era ricorda bene come le più forti sollecitazioni venissero da una serie di giudici di sorveglianza così come dal mondo dei cappellani di vari istituti di pena. L’esigenza di rallentare con i provvedimenti emergenziali non era il contenuto dell’inesistente “papello” con le richieste di Riina inventato dal farlocco Massimo Ciancimino, ma il bisogno del mondo carcerario di voltare pagina dall’emergenza. Ed è inutile continuare a rovistare, spesso con la complicità degli stessi protagonisti, tra ministri “duri” e “molli”, tra capi del Dap repressivi o permissivi. Nicolò Amato era un garantista, e Francesco Di Maggio che divenne il vice del suo successore Capriotti, non era affatto un “trattativista”, ma un magistrato abile che aveva il compito, attraverso i colloqui investigativi, di indurre la maggior parte possibile di mafiosi alla collaborazione. Anche questa era una forma di lotta alla mafia, colpendola dall’interno. “Ingeneroso e fuorviante”, dice la sentenza, aver tentato di coinvolgere, da parte dei pubblici ministeri, il ministro Conso e il presidente della repubblica Oscar Maria Scalfaro nel teorema della “Trattativa”. Anche loro hanno contribuito nella lotta “contro” la mafia, non “per” la mafia. Chissà se la procura generale, non più guidata dall’ormai pensionato Roberto Scarpinato, se ne farà una ragione, o se ricorrerà anche in cassazione.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.