Nonostante i quotidiani strali lanciati contro Israele dall’arco dell’arsenale propagandistico erdoganiano, sono cresciuti i legami commerciali tra Ankara e Gerusalemme che sembrano difficilmente deteriorabili.
Il commercio turco-israeliano si è sempre dimostrato immune alle turbolenze diplomatiche, anche gravi, che si sono registrate in 75 anni di relazioni e anche ora, durante l’attuale guerra a Gaza, il traffico navale tra i porti turchi e israeliani sta continuando. I numeri parlano da soli, anche dopo il 7 ottobre.

Da quando è scoppiato il conflitto, 293 navi mercantili sono salpate dalla Turchia verso Israele la quale ha continuato a ricevere petrolio dai porti turchi, compreso il greggio che scorre attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, estratto dal giacimento azero del Mar Caspio e che giunge sulle coste del Mar Mediterraneo nell’hub petrolifero turco di Ceyhan e alla raffineria della Socar ad Aliağa, nella Turchia occidentale e poi distribuito in Italia, nel resto dell’Europa e in Israele. Il governo turco tiene molto a mantenere aperti quei rubinetti e non è stato mai nemmeno sfiorato dall’idea di un embargo. Baku soddisfa il 30% del fabbisogno petrolifero di Israele. La Seaviolet, una petroliera registrata a Malta, ha recentemente trasportato 1 milione di barili di greggio azero da Ceyhan al porto israeliano di Eilat. Secondo Bloomberg, la nave era ufficialmente diretta ad Aqaba in Giordania, ma si è fermata a Eilat dopo essere scomparsa dai sistemi di localizzazione il 24 ottobre.

Le relazioni commerciali

Ciò ha avuto una eco anche nel parlamento turco dove l’opposizione ha criticato il governo anche per la concessione agli Usa dell’utilizzo della base aerea di İncirlik, nel sud della Turchia, dalla quale sarebbero state trasferite armi ed equipaggiamenti per sostenere la campagna militare israeliana. Secondo il prestigioso medium di inchiesta britannica, Declassified, gli aiuti militari provenienti da İncirlik sono arrivati in Israele attraverso la base dell’UK, RAF di Akrotiri, nel sud di Cipro.
Nulla è cambiato anche nel settore delle esportazioni turche di acciaio, ferro e prodotti chimici necessari all’industria israeliana degli armamenti. La Turchia è il quinto fornitore di acciaio e di ferro per Israele, rappresentando il 20% delle esportazioni turche, mentre i prodotti chimici il 10,7% e il ferro e altri metalli il 4,2%.

Le strette relazioni economico-commerciali esistenti tra Ankara e Gerusalemme sarebbero alla base del recente rifiuto del presidente iraniano, Raisi, di recarsi in visita ad Ankara per incontrare Erdoğan. Tehran vuole che la Turchia sia coerente e che, al di là della retorica propagandistica antisraeliana ad uso interno, interrompa ogni relazione commerciale diretta o indiretta con Gerusalemme. Inoltre, anche le dichiarazioni roboanti sul supporto turco alla popolazione di Gaza suonano come pura propaganda. Infatti, il ruolo economico della Turchia nell’aiuto alla popolazione palestinese è irrilevante rispetto a quello fornito da Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, paesi questi sempre in prima linea nell’impegno per la ricostruzione di Gaza dopo i conflitti che si sono susseguiti e anche dopo quest’ultima guerra ci dobbiamo aspettare che siano gli Stati del Golfo a riprendere l’iniziativa. L’attuale conflitto è scoppiato subito dopo che la Turchia aveva ristabilito pieni rapporti diplomatici con Israele nella speranza di conquistare un ruolo centrale nell’equazione energetica nel Mediterraneo orientale.

Il vertice

Dopo l’incontro di settembre tra Erdoğan e Netanyahu a New York, era in programma una visita del primo ministro israeliano in Turchia e in cima all’agenda vi era la cooperazione nel settore energetico che avrebbe garantito ad Ankara un ruolo nello sfruttamento di giacimenti scoperti nel Mediterraneo e il trasporto di gas israeliano in Europa attraverso l’Anatolia. Il leader turco finora è stato molto abile nel tenersi alla larga da qualsiasi sanzione contro Israele, ciò ha deluso molto i suoi fedeli sostenitori e per rimediare a tutto questo ha dato in pasto alla base del suo Ak Parti discorsi infuocati e minacce contro lo stato ebraico, mentre il ramo giovanile del partito organizzava sit-in e boicottaggi di negozi Starbucks e McDonald’s. Ankara si è limitata a richiamare il suo ambasciatore da Tel Aviv e a cancellare l’incontro con Netanyahu, ma ha aggiunto che “tagliare completamente i legami con Israele non è assolutamente in agenda”.

La “Nuova Turchia”

Il conflitto in Medio Oriente rappresentato da Erdoğan come una contrapposizione tra “la croce e la mezzaluna”, l’accusa rivolta a Israele di essere uno “stato terrorista” e la difesa ad oltranza di Hamas, dipinto come un’organizzazione di resistenti per la liberazione della Palestina dalla presunta occupazione sionista di terre che dovranno appartenere all’Islam fino al giorno del giudizio, non è altro che una insalatona mista del ricco menu propagandistico-ideologico e geopolitico che sta apparecchiando il leader turco. Narrazione, la sua, mirante a far dimenticare la grave crisi economica che affligge il paese e a cementare l’elettorato conservatore-islamista attorno a tematiche identitarie, nostalgiche e revansciste assecondando il sogno di un recupero della grandezza imperiale perduta. La riconquista di Istanbul e di Ankara nelle elezioni comunali del marzo 2024 è fondamentale per il presidente al fine di proseguire il cammino verso quella che lui chiama la “Nuova Turchia”, quella post kemalista.

Questione di opportunismo

Il denominatore comune che caratterizza la politica del presidente è dunque il suo opportunismo. Nessuna delle sue iniziative diplomatiche internazionali per Gaza ha suscitato risposta e pensa di sfruttare anche questa crisi per segnare punti all’interno del suo paese.
Quando le elezioni saranno un fatto superato probabilmente rimodulerà la sua retorica nei confronti di Israele.