Sono veri e propri macigni le scelte che l’Unione europea ha di fronte. Perchè toccano le nervature più sensibili delle sue società. Perchè mettono in alternativa la difesa del presente o la scommessa sul futuro, la conservazione del benessere o la capacità di rispondere, costi quel che costi, alle sfide dei tempi. Scelte ad alto tasso politico, perciò. Ma Bruxelles avrà spalle sufficientemente larghe? O l’Europa dovrà affidarsi a Berlino, Parigi e Londra, a quelle che un tempo si chiamavano le grandi potenze?

Certo è che l’attuale agenda dei Ventisette fa tremare le vene ai polsi. C’è da mettere in piedi una difesa continentale che risponda al disimpegno americano. C’è l’oneroso dossier ucraino. C’è, naturalmente, il duello con la Casa Bianca sui dazi. Per non dire dei flussi migratori, del green deal, dell’unione bancaria. Nodi di portata storica (e di grande impatto popolare) che hanno, invariabilmente, una cosa in comune: la disomogeneità dei Ventisette. Spagna e Polonia sono agli antipodi sul riarmo. Ungheria e Slovacchia si oppongono al sostegno militare dell’Ucraina. Germania e Italia chiedono, diversamente dalla Francia, una mediazione sui dazi. Mentre su altri dossier le spaccature interne non vengono neppure alla luce, perché Bruxelles, in mancanza di soluzioni condivise, finisce per rimandare ogni iniziativa. Come sull’impatto climatico zero, sul trattato di Lisbona, sul mercato dei capitali, sulla moneta digitale, ecc.

Il fatto è che l’Unione non ha oggi i carismatici leader di un tempo, nè un nocciolo duro com’è stato lungamente l’asse franco-tedesco. Ma soprattutto non ha la legittimazione degli europei, che appaiono assai poco coesi di fronte alle scelte difficili imposte dai tempi e che perciò impediscono, con i loro “egoismi”, le decisioni coraggiose e tempestive che servirebbero. Diventa sempre più evidente come l’Unione abbia creato lo spazio materiale di una comunità, familiarizzando 450 milioni di individui con il proprio articolato territorio storico, ma non abbia saputo costruire valori sufficientemente forti da farne una civiltà consapevole, capace di identificarsi con le sue istituzioni, disponibile ad accettare i sacrifici e i rischi che esse talvolta richiedono. Senza dire della complessità delle procedure democratiche, dei limiti della rappresentanza indiretta o di una regola dell’unanimità a dir poco paralizzante.

Un’Unione diventata perciò, proprio quando serviva l’imperio della politica, un corpo acefalo. Un gigante immobile. Gulliver sconfitto dai Lillipuziani. E i Lillipuziani, evidentemente, siamo proprio noi, i Ventisette, noi che sempre meno andiamo a votare, quando c’è da scegliere chi mandare a Strasburgo, o votiamo per i partiti euroscettici. Un’altra Europa, tuttavia, sembra prendere forma di fronte all’aggressività ideologica, oltre che commerciale e militare, delle autocrazie e dello stesso (ex) protettore americano. Non più l’attuale mosaico di popoli tenuti assieme da un’idea ambiziosa di valori civili condivisi, ma una sommatoria di Stati nazionali. Il ritorno di quelle che, prima delle guerre del ‘900, si chiamavano le grandi potenze e che oggi, sebbene impallidiscano di fronte ai protagonisti del gioco globale, sembrano tuttavia possedere quella risorsa della politica che a molti dei Ventisette è spesso mancata.

Certo colpisce la forza di Merz, il cancelliere che ha dettato al suo paese un riarmo da centinaia di miliardi. O la forza di Starmer, il laburista che ha i suoi guai interni ma intanto torna sul continente per difendere Kiev. O la forza dello stesso Macron, conclamata anatra zoppa e tuttavia tenace protagonista del quadro internazionale. Sono leader forti perchè rappresentano Stati nazionali forti. Hanno alle spalle opinioni pubbliche che avvertono la responsabilità delle odierne scelte “esistenziali”. E naturalmente si battono per gli interessi dei propri paesi. Ma possono proporsi come i cavalieri senza macchia e senza paura di un’Europa decisa a vender cara la pelle. L’Europa delle potenze europee, più che l’Unione europea.