Economia
Giù le emissioni ma con flessibilità, von der Leyen si scopre pragmatica

Pragmatico, non si può definire altrimenti il nuovo regolamento Ue sull’obiettivo climatico 2040. La proposta, presentata ieri dal commissario Ue al clima Hoekstra, prevede la possibilità di un utilizzo limitato di crediti di carbonio, provenienti da Paesi partner che condividano azioni di impatto virtuoso sul clima, in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. In questo modo, a partire dal 2036, si otterrebbe un contributo massimo del 3% delle emissioni nette dell’Ue del 1990. «I crediti dovranno essere verificabili, certificabili e aggiuntivi», ha detto Hoekstra, sottolineando che l’export resta la priorità per l’Europa.
L’inciso, pragmatico appunto, merita una riflessione. Con Šefčovič a Washington per trattare sui dazi, Bruxelles non può permettersi di andare avanti con l’approccio ideologico sul clima. Un Green Deal talebano sarebbe un’ulteriore zavorra alla competitività della nostra industria. Nella sua nuova veste di Commander in Chief, di un’Europa che pone la sicurezza all’apice della sua agenda di governo, Ursula von der Leyen conferma sì la volontà di tagliare le emissioni di CO2 del 90%, ma, offre ampie flessibilità agli Stati membri per come raggiungere l’obiettivo, compresa l’opzione dei carbon credit. Sconsigliata dagli esperti scientifici, ma politicamente inevitabile. La transizione ecologica comporterà trasformazioni strutturali, tra cui Elettrificazione dei veicoli, graduale eliminazione dei combustibili fossili, ristrutturazioni edilizie. Si può fare tutto, ma limitando morti e feriti. Primum vivere, dice Frau Ursula.
Ora la proposta inizia l’iter di approvazione: Consiglio Ue Ambiente a metà luglio, europarlamento con ipotesi di voto il 18 settembre. Un percorso a marce forzate, visto che Bruxelles intende arrivare alla Cop30 di Bele’m, in Brasile, con il documento approvato. Ambizione non facile da perseguire viste le spaccature tra gli Stati membri. C’è l’opposizione intransigente dell’Ungheria di Orban e della Repubblica Ceca, che – Green Deal versione light o meno poco importa – difendono agricoltura intensiva e industria pesante. C’è gruppo dei pro Green deal, anch’essi poco inclini al compromesso, fatto da Svezia, Finlandia, Slovenia, ma soprattutto Spagna e Danimarca, fresca di presidenza di turno Ue. Come tale, Copenaghen dovrebbe mostrarsi più malleabile. Non fosse altro per l’adeguato sostegno di tutti i partner Ue sul dossier Groenlandia. Lo si vedrà a giorni con l’ufficializzazione del programma del semestre.
I risultati in fatto di rinnovabili portano questi governi a favorire una transizione sostenuta. È una fronda che si assottiglia, però. Soprattutto perché ha perso la testa di serie, la Germania, convertita dalla realtà dei fatti. La rinuncia al nucleare e al gas di Putin è arrivata in disgraziata coincidenza con la crisi del manifatturiero. “Bisogna produrre”, dice Merz. E così si avvicina l’Italia di Giorgia Meloni, che propone di mantenere una riduzione delle emissioni dell’80 o dell’85% entro il 2040. Infine c’è la Francia. Forte della sua energia nucleare, è tutt’altro che contraria all’obiettivo del 90%. Ne critica il metodo, però. Anche Macron sa che non può avere tutto: ambiente, nuovi mercati nel Mercosur, un risultato decoroso sui dazi di Trump. Tre tavoli da gioco per l’Europa sono troppi.
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