Woke corner
La riflessione
Uguaglianza o equità, perché sulle “azioni positive” è meglio mettere una data di scadenza
Strumenti come le quote etniche sacrificano l’uguaglianza in nome dell’equità. Il rischio è che i correttivi stessi diventino a loro volta delle storture (ingiuste)
Sui social network, alcune immagini catturano sempre l’attenzione e ci strappano un facile like. “I ragazzi sulle scatole”, anche nota come “Uguaglianza vs. Equità” di autore anonimo, ne è un esempio emblematico. Due immagini affiancate: nella prima, tre persone di altezze diverse – un adulto, un bambino e un bambino piccolo – stanno su scatole della stessa altezza per guardare una partita oltre una recinzione. Il più piccolo, però, non riesce comunque a vedere. Nella seconda immagine, le scatole sono distribuite in modo che ciascuno abbia il supporto necessario: l’adulto senza scatola, il bambino con una, il più piccolo con due. Così, tutti possono vedere oltre la recinzione. Un messaggio semplice e diretto: W l’equità!
Ma nella realtà, le cose non si risolvono spostando scatole o con una vignetta. Kennedy lo sapeva bene quando, nel 1961, firmò l’Ordine Esecutivo 10925, imponendo ai fornitori dello Stato di non discriminare i propri dipendenti in base all’etnia. Così nascevano le “affirmative action”: azioni “discriminatorie” positive per sostenere l’uguaglianza. Anche in Italia, nel 1991, con la legge 125, vennero introdotte le “Azioni positive” per la parità uomo-donna nel lavoro. L’EO 10925 aprì la strada al Civil Rights Act del 1964, portato a termine da Lyndon B. Johnson dopo l’assassinio di Kennedy. Questa legge segnò la fine ufficiale delle discriminazioni basate su etnia e genere. Un grande passo verso l’uguaglianza, ma per l’equità?
Per correggere disparità storiche, si introdussero le “quote” nelle ammissioni universitarie, con l’obiettivo di rappresentare equamente le minoranze. Seppur efficaci, suscitarono controversie. Nel 1978, la Corte Suprema statunitense dichiarò incostituzionali le quote rigide, permettendo però che l’etnia restasse un fattore valutabile nelle ammissioni. Oggi, il quadro è nuovamente cambiato. Recentemente, la Corte Suprema ha vietato l’uso delle azioni positive per promuovere la diversità etnica nei campus universitari, stabilendo che l’ammissione debba basarsi sul merito individuale e non sulla categoria etnica a cui la persona potrebbe appartenere. Inoltre, l’obiettivo di “promuovere la diversità” è stato giudicato troppo vago.
Nel frattempo, un giudice federale ha bloccato temporaneamente il Fearless Fund, un fondo di venture capital dedicato a imprese guidate da donne nere, impedendo l’assegnazione di sovvenzioni esclusivamente a donne nere. Un paradosso? La fine delle “azioni positive”? Le azioni positive, sia negli Stati Uniti sia in Italia, sono interventi temporanei e straordinari che, derogando al principio di uguaglianza formale, puntano a eliminare gli ostacoli che impediscono una reale parità di opportunità. Temporanei, quindi non strutturali, devono avere una durata breve e determinata. Sulle “azioni positive” dobbiamo mettere una data di scadenza. Finita la partita, il bambino deve restituire le scatole. Le scatole possono essere utilizzate solo per un periodo e bisogna valutare quanto il bambino si meriti di riceverle.
Inoltre, dobbiamo verificare se, per colmare un’apparente ingiustizia, non si creino storture peggiori. Un esempio? Che il bambino pensi che la scatola in più gli sia sempre dovuta. Oppure, che si tolga all’adulto il sacrosanto diritto di vedere la partita seduto sulla “sua” scatola, costringendolo a stare in piedi per cederla al bambino piagnucoloso. La verità? Le chiameremo “azioni positive” solo fino a quando non tolgono (o rompono), ingiustamente, la scatola a noi.
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