La risoluzione
Un errore snobbare la moratoria sulla pena di morte
1. Nel cupo presente del mondo in cui viviamo, le poche buone novità globali non andrebbero trascurate. È quanto invece accaduto al voto del 16 dicembre scorso, espresso dall’Assemblea Generale dell’ONU a favore della moratoria sull’uso della pena di morte e sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie: se ne è scritto solo su questo giornale, meritoriamente, grazie alla sottosegretaria agli Esteri, Marina Sereni, e alla tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Zamparutti (Il Riformista, 16 e 19 dicembre). Altrove, la notizia non ha fatto notizia. Perché?
2. La pena capitale – è la risposta di tanti – non è più un problema per il nostro Paese, dove non esiste da tempo: per l’esattezza, dal 4 marzo 1947. Quel giorno, in esecuzione di una sentenza della Corte d’Assise di Torino del 5 luglio 1946, tre rapinatori ritenuti responsabili della strage di Villarbasse furono fucilati per aver ucciso a bastonate dieci persone ed averne gettato i corpi in un pozzo. Da allora, la Repubblica italiana non ha più inflitto la pena di morte.
Del resto – continuano i più – la storia italiana è tradizionalmente abolizionista: con la sola eccezione della parentesi fascista, la pena capitale è stata cancellata dalla nostra legislazione fin dal primo codice penale dell’Italia unitaria, adottato nel 1889 su impulso del guardasigilli Zanardelli.
È una mezza verità, dunque una mezza bugia. La nostra è semmai una storia tendenzialmente abolizionista, avendo sempre contemplato l’applicazione della pena di morte «nei casi previsti dalle leggi militari di guerra», come recitava anche la Costituzione repubblicana (art. 27, 4° comma). Eccezione pericolosa, perché a simili leggi sono soggetti – ancorché in tempo di pace – tutti i corpi di spedizione all’estero impegnati in operazioni militari, con il relativo personale di comando, di controllo e di supporto. Da qui il rosario di decreti legge approvati d’urgenza ad ogni missione di peace-keeping al fine di scongiurarvi l’applicazione della pena capitale, fino alla decisione di abolirla dal codice penale militare di guerra (legge n. 589 del 1994).
Risale invece solo a tredici anni fa la scelta di ripudiarla incondizionatamente, espressa con legge costituzionale n.1 del 2 ottobre 2007: «Non è ammessa la pena di morte». Punto (e basta). Fino ad allora – cioè fino a ieri – il nostro è stato, dunque, un Paese retenzionista.
3. Quella dell’art. 27, 4° comma, non è una revisione costituzionale simbolica. Approvata a maggioranza qualificata da entrambe le camere, la legge n.1 del 2007 ha evitato il referendum popolare confermativo. Entrata in vigore, in quanto legge costituzionale è sottratta anche a referendum abrogativo popolare e richiede, per una sua ipotetica revisione, un procedimento legislativo aggravato. Così, la scelta abolizionista è stata giuridicamente messa in sicurezza.
Ciò è un bene, perché il vento forcaiolo può fare il suo giro, e soffiare nella direzione di un ritorno al passato. Come in passato. Nel 1928, Benedetto Croce scriveva nella sua Storia d’Italia che l’abolizione della pena di morte era ormai un fatto di costume, e che l’idea stessa di una sua restaurazione era inconciliabile con il sentimento nazionale. Eppure, dopo pochi anni, il fascismo la reintrodusse senza grandi turbamenti nell’opinione pubblica, e con i chierici del diritto pronti ad argomentare – come Francesco Carnelutti sulle pagine della Rivista di Diritto pubblico – il diritto dello Stato di disporre della vita dei cittadini in analogia all’istituto civilistico dell’espropriazione per pubblica utilità.
L’abolizionismo, infatti, è sempre un successo fragile, facilmente insidiabile. Magari applicando l’analisi economica al diritto, arrivando così a giustificare la preferibilità della pena di morte al carcere a vita, perché meno onerosa per l’erario. Oppure teorizzando l’inevitabilità della pena capitale per una residuale categoria non-umana di rei, «i Mostri» (così – con tanto di maiuscola – Nicolò Amato, Caino e Abele. Vita per vita?, Treves editore, 2016): assassini nati, protagonisti recidivi di reati efferati, impermeabili a qualsiasi minaccia retributiva o misura rieducativa, verso i quali l’unica deterrenza efficace è metterli nella materiale impossibilità di continuare a uccidere, giustiziandoli. Del resto, l’ultimo rapporto Censis sulla realtà sociale del Paese attesta un’impennata dei favorevoli alla pena capitale (il 43,7% degli italiani, quasi uno su due), con punte del 44,7% tra i giovani: né poteva essere diversamente, considerate le tante tricoteuses che animano il dibattito pubblico dei delitti e delle pene.
Se questo è il nuovo che avanza, è stato davvero lungimirante scolpire nella nostra Costituzione che il divieto della pena di morte non può essere più messo ai voti.
4. Controcorrente, l’abolizionismo costituzionale suggella così il paradigma rieducativo penale, declinandolo – una volta per tutte – in termini di reinserimento sociale. La soppressione della pena capitale, infatti, cancella l’unica eccezione costituzionalmente prevista alla finalità rieducativa della pena (prescritta dall’art. 27, 3° comma), restituendole la forza dell’inderogabilità: ora, davvero, si può affermare che, per la Costituzione italiana, nessuna persona è mai persa per sempre.
C’è dell’altro. Come insegna l’esperienza statunitense, la giustificazione aggiornata della pena di morte è oggi in un suo evoluto scopo terapeutico: Caino va giustiziato nel nome di Abele per ripristinare il benessere collettivo e fornire una chiusura psicologica alle vittime traumatizzate. L’abolizionismo costituzionale, a contrario, conferma il monopolio pubblico del diritto punitivo, mettendolo al riparo da forme di sostanziale privatizzazione: fossero anche quelle di una difesa sempre legittima (come si vorrebbe far dire al nuovo art. 52 del codice penale), o di una rifondazione del senso della pena a partire dai bisogni delle vittime.
Il monopolio statale nell’esecuzione penale, infatti, serve proprio per emanciparla dalla vendetta privata, trasformandola in esigenza di giustizia pubblica proceduralmente normata. Nello Stato di diritto Caino deve essere punito, ma non in forme equivalenti al suo crimine, perché a forza di «occhio per occhio» si diventa tutti ciechi.
5. L’abolizionismo costituzionale non ha solo una funzione difensiva. Impone al nostro Stato di concorrere a rifondare una grammatica delle relazioni internazionali che elevi il ripudio della pena di morte a standard giuridico.
Vale, innanzitutto, nella cooperazione giudiziaria, in cui deve operare il divieto di estradizione e di espulsione verso Paesi dove il soggetto corra anche soltanto il rischio di essere giustiziato, «perché il divieto contenuto nell’art. 27, 4° comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti – primo fra tutti il bene essenziale della vita – impongono una garanzia assoluta» (così la sentenza costituzionale n. 233/1996 sul noto “caso Venezia”).
Già oggi, del resto, l’abolizione della pena capitale è condizione necessaria per l’appartenenza o per l’adesione all’Unione Europea e al Consiglio d’Europa, rappresentando oramai a livello continentale (con l’unica eccezione della Bielorussia) un inedito elemento identitario. Il suo dilagare ha anche consentito l’esclusione della pena capitale dall’arsenale sanzionatorio della Corte penale internazionale, che pure giudica di reati indicibili. Ciò segna una significativa discontinuità con le pregresse esperienze di giurisdizione internazionale: gli statuti dei Tribunali di Norimberga (1945) e di Tokyo (1946), infatti, prevedevano per i crimini di guerra la pena di morte, poi eseguita in concreto.
6. Di questo puzzle, tessera imprescindibile è oramai la politica – a riconosciuta leadership italiana – per la moratoria universale della pena di morte. Dopo due tentativi falliti, l’Assemblea Generale dell’ONU, dal 2007 al 2020 ha approvato otto risoluzioni per la sospensione delle esecuzioni capitali, nella prospettiva dell’affermazione del diritto universale a non essere uccisi per mano dello Stato. La loro implementazione ha fermato fucilazioni, impiccagioni, iniezioni letali, elettrocuzioni, decapitazioni di migliaia di condannati altrimenti senza scampo: basta immaginare i loro volti e le loro voci, per capire che non si tratta di un mero dato statistico.
Eppure l’iniziativa dell’ONU viene trascurata, quando non giudicata con sufficienza, perché solo ottativa e non vincolante per i singoli Stati. È un grave errore che ne sottostima l’efficacia, sia tattica che strategica. Lo strumento della moratoria, infatti, traduce in tempi politici i tempi storici dell’abolizionismo, e l’esperienza pregressa attesta che tutti i Paesi oggi abolizionisti sono sempre passati attraverso la fase intermedia di una moratoria, legale o di fatto. Osteggiarla con sdegno perché compromissoria rispetto al non negoziabile ripudio della pena capitale, significa anteporre una battaglia di principio di mera testimonianza ad una battaglia di scopo sempre più estesa: il voto del 16 dicembre scorso ha registrato (su 193 membri dell’ONU), 123 Stati favorevoli, 38 contrari, 24 astenuti, 8 assenti, confermando così il progressivo aumento delle nazioni acquisite alla causa.
7. Nel nostro ordinamento, dunque, non esiste più la pena di morte. Vi sopravvive invece l’ergastolo, che pure della pena capitale è l’ambiguo luogotenente. È vero storicamente: l’ergastolo si afferma – Cesare Beccaria docet – non come alternativa umanitaria ma per ragioni di efficienza, essendo la sua perpetua estensione ben più afflittiva rispetto all’intensità della condanna a morte. È vero anche giuridicamente: vigente la pena capitale, il codice penale equiparava lo status dell’ergastolano a quello del condannato a morte; così come, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, la pena capitale fu convertita di default con quella del carcere a vita.
Pena di morte e pena fino alla morte (qual è l’ergastolo senza condizionale) sono come gemelli diversi. Entrambe esprimono un assolutismo retributivo, amputando dalla pena la sua finalità rieducativa. Entrambe pagano dazio all’errore giudiziario, sempre possibile, tollerando l’inaccettabile rischio di punire irreversibilmente un innocente. Entrambe, in nome di esigenze collettive di difesa sociale, strumentalizzano il condannato per fini di politica criminale, violandone la dignità individuale. Entrambe lo costringono a un trattamento inumano e degradante qual è il «soggiacere per lunghi anni nel braccio della morte e all’angoscia e alla tensione crescente del vivere all’ombra sempre presente della morte» (così la Corte Europea dei diritti umani, nella causa Soering c. Regno Unito).
L’art. 27, 4° comma, della Costituzione esprime il divieto assoluto e generalizzato della morte come pena. Così interpretato, l’ergastolo senza condizionale ne rappresenta un’illegittima eccezione. Anche nei suoi confronti si imporrebbe una “moratoria” (magari attraverso l’ormai prossima decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo), nella prospettiva di relegare la pena fino alla morte, come già la pena di morte, tra gli inutili arnesi della storia.
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