Sono trascorsi soltanto pochi giorni da domenica 2 luglio: il sole scalda Cardano al Campo, la comunità è riunita nella Chiesa di S. Anastasio per la Messa, poi si raccoglie di fronte al Municipio e inonda la piazza, per assistere alla cerimonia di consegna della Medaglia d’oro al Merito Civile in memoria di Laura Prati, sindaca della cittadina in provincia di Varese.
Dieci anni prima, nello stesso giorno, un vigile urbano sospeso dal servizio entrò in quel palazzo comunale e le sparò nell’ora del ricevimento dei cittadini, colpendo con lei il vicesindaco Costatino Iametti. Quest’ultimo si salva, per Laura Prati il quadro medico precipita nei giorni a seguire. Chiude gli occhi per sempre il 22 luglio, a soli 49 anni. Utile è ricordare la temperie di quell’anno.

Le elezioni politiche del 2013 in Italia hanno generato una situazione politica frammentata. Il paese vive uno stato di inquietudine: il clima è teso, elettrico, incerto. Nel mese di aprile, mentre era in corso il giuramento del governo Letta, un uomo spara a due carabinieri che presidiano il Parlamento. Il carabiniere Giangrande, vedovo con una figlia giovane, rimane gravemente ferito: tetraplegico a soli cinquant’anni. È la spia che qualcosa si sta alterando, lacera la solidarietà di senso che lega il paese, e insieme le sue comunità. La morte però non è l’annientamento, non è il nulla. Identificare la morte con il nulla è ciò che vorrebbe l’assassino. Per noi, è l’esperienza di un “essere senza risposta” da parte di chi rimane, e insieme un testamento di responsabilità che viene lasciato. Responsabilità di chiederci, tra l’altro, cosa della tragica vicenda di Cardano al Campo ci interroghi anche oggi.

Laura Prati era una politica di rango: non fu una meteora, non prese un treno in corsa, non emerse nello spazio di un mattino. La gavetta è lunga, lunghi gli anni di formazione politica e istituzionale. Un modello distante dalle rivendicazioni del tempo. Come spesso capita a tanti amministratori, accade di dover affrontare situazioni delicate: di trovare sulla propria strada una linea d’inciampo, quasi una corda virtuale tesa davanti a sé. Oltrepassarla implica delle conseguenze. Aggirarla, invece, è sempre possibile: tutto continua come sempre. Di fronte alla necessità di assumere decisioni che comportano l’inimicarsi di figure equivoche Prati salta la corda, oltrepassa la linea, fa quello che si chiama: il proprio dovere. Nella percezione dell’accaduto questo non fu un caso di femminicidio. Tecnicamente, in effetti, parrebbe non esserlo.

Se però colleghiamo gli elementi della tragedia, ci sono chiare due cose. Furono i giudici a condannare il futuro omicida, per truffa e concussione. Ma fu lei a disarmare e relegare in ufficio l’uomo definito un “Rambo”, per quantità e tipologia di armi detenute, già tormento e timore per le colleghe donne. Poteva essere una strage, quel giorno, tuttavia fu con la sindaca che lui intese «regolare i conti», come disse poi. Servono parole nuove, ha scritto Fabrizia Giuliani sulle pagine di questo giornale, perché la violenza che colpisce le donne nel nostro tempo differisce da quella del passato. Laura Prati riuscì a trasmettere la giusta consapevolezza del valore delle parole nella sua comunità: per la prima volta si disse “la Sindaca”. Rivendicò subito l’adeguatezza di linguaggio in ogni contesto, orale e scritto. In quel momento se ne parlava e si sorrideva, quasi fosse un vezzo. Al contrario, fu un cambiamento che, se minimo all’apparenza, ebbe una valenza straordinaria in termini di relazione fra le persone. Tanto in un contesto privato quanto pubblico, in cui le dinamiche relazionali del potere sono lette anche ora– in modo implicito ma non meno impattante – secondo uno schema di dipendenza della donna nei confronti dell’uomo, il termine “femminicidio” connette fra loro le implicazioni culturali, sociali ed emotive. Da ciò l’appropriatezza.

A Laura Prati spararono pochi giorni dopo aver promosso un’iniziativa pubblica proprio su questo tema, quasi una feroce legge del contrappasso. Oggi che il dibattito cambia verso, che l’identità femminile non è più data per scontata e nel dibattito pubblico ci dividiamo fra chi pensa che le donne siano costruzioni socioculturali, e chi sostiene che il corpo è veicolo d’identità e siamo tutti e tutte “nati da donna”, la vicenda della sindaca di Cardano merita considerazione. Lungi da me arruolarla in questo o quello schieramento. Ingrato è l’uso politico dell’assenza dell’altra. Tuttavia, a noi, ma soprattutto alle giovani e ai giovani, una figura impegnata nella società civile, dedita con passione a ristabilire la legalità nelle istituzioni, promotrice di un nuovo modo di partecipazione alla politica, sostenitrice della lotta per i diritti della donna, propone un modo di pensare alle relazioni personali e all’impegno pubblico nel segno della cura. La cura è parola antica, parla al femminile: allora non solo parole nuove servono dunque, occorre anche l’in-attualità custodita da quelle antiche.

Erica D’Adda

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