Scelte alla portata di tutti
Una filantropia popolare e senza protagonismi, solo così si contrasta la povertà: la lezione di Yunus
Secondo Muhammad Yunus, banchiere bengalese e premio Nobel per la pace, filantropia e charity generano dipendenza. Il contrasto alla povertà non può dipendere dalla generosità episodica di singoli individui ma richiede una visione di più lungo respiro. In una prospettiva di intervento strutturale questo significa innanzitutto nuove opportunità di impiego attraverso imprese che hanno nella finalità sociale il loro obiettivo primario. La strada maestra è quindi quella che promuove percorsi di autonomia grazie alla creazione di imprenditori sociali. Per una filantropia efficace e non distorsiva, quindi, è cruciale una stretta relazione con lo sviluppo dell’economia sociale.
Non sorprende che questa sia la visione di un economista del sud del mondo, alimentata dalla consapevolezza che la partita dello sviluppo va giocata nella relazione tra indipendenza, empowerment delle persone e crescita basata su fattori locali. Niente di più lontano da un’idea di filantropia figlia di un atteggiamento di benevolente superiorità, che soccorre ma non ripara. Nel severo giudizio di Yunus si sente l’eco di una reazione al paternalismo vittoriano che fa vibrare corde sensibili specie in paesi che hanno subito un governo coloniale. L’immagine ancora viva è quella del filantropo come persona di successo che si sente in dovere di restituire una parte della propria fortuna a chi è rimasto indietro. Ma, nel farlo, non riesce a liberarsi dell’idea che fortuna e sfortuna non siano distribuite a caso bensì in qualche modo dipendano dai meriti degli individui. Allo spirito di compassione si accompagna quindi il senso di un diritto del munifico donatore di orientare la restituzione (l’anglosassone giving back) in base alle proprie preferenze e imperscrutabili inclinazioni. Non sempre scevre dal pregiudizio che i più sfortunati siano in qualche misura responsabili della propria condizione.
Si capisce perché nel passato a questa idea élitaria di filantropia si sia opposta la visione di chi riteneva che i bisogni primari delle persone in stato di bisogno non potessero essere soddisfatti dalla filantropia ma fosse invece necessaria l’azione dello Stato. La critica della filantropia, infatti, non è nuova. Soprattutto in Europa, dove a partire da William Beveridge – l’architetto del welfare state, che dall’Inghilterra ha preso le mosse per estendersi in gran parte dei paesi europei – si è affermata l’idea che la lotta alla povertà e al bisogno sociale per la sua vastità non potesse essere affidata alla benevolenza dei singoli privati, per quanto bene intenzionati. L’Europa contemporanea è fortemente debitrice di questa idea, a partire dalla quale è stato strutturato un articolato sistema di interventi pubblici pensati per favorire l’inclusione sociale su una scala e con un dispiegamento di risorse assai più ingente di quanto potrebbe fare qualsiasi benefattore privato.
Questa è la storia dello stato sociale europeo, ed è una storia di successo. Almeno fino a quando l’offerta pubblica di servizi sociali è riuscita a stare al passo con la domanda. Oggi, infatti, anche per effetto della crescita della complessità sociale e di bisogni sempre più diversificati nell’ambito della salute, dell’assistenza, dell’istruzione, l’approccio universalistico del welfare tradizionale fatica a fornire tutte le risposte. Il sistema pubblico è fortemente condizionato da vincoli, non solo di bilancio, che non permettono di reagire con la rapidità e la flessibilità richieste dalle nuove istanze. Quindi, anche se la sproporzione tra risorse pubbliche e risorse private rimane enorme, nel nuovo scenario l’apporto di risorse private acquista di nuovo importanza, non tanto in termini di quantità quanto soprattutto per la maggiore capacità di sperimentare e innovare l’offerta di servizi sociali al ritmo richiesto dai nuovi bisogni.
Riprendendo il punto sollevato da Yunus, la questione oggi non si pone come il ritorno in auge di una filantropia autoreferenziale di pochi ricchi che donano seguendo le proprie passioni, più che bisogni urgenti e diffusi, bensì come affermazione di una filantropia di comunità strettamente connessa allo sviluppo di un’economia sociale che aiuti le persone a rafforzare la propria autonomia anziché creare dipendenze. La filantropia di cui c’è bisogno non è quella (tardivamente) riparatrice di chi sente di dover far qualcosa per soccorre le vittime di quelle stesse trasformazioni economiche da cui trae origine la sua ricchezza. Non è la tradizionale pratica riservata ad una élite, e neppure quella forma di quel “filantrocapitalismo” che ne è la forma più moderna, bensì l’espressione di una solidarietà che impegna tutti i membri di una comunità, indipendentemente dal loro reddito. Una filantropia spogliata dalle motivazioni connesse al prestigio personale e allo status sociale, e concentrata piuttosto sulla dimensione dell’impegno civico. Una filantropia popolare, senza protagonismi e con al centro la preoccupazione per il miglioramento della qualità di vita della comunità. Un modo tramite il quale le persone che vivono in una comunità danno forma alla visione morale di ciò che considerano “bene”.
Questa filantropia – ammesso che la si voglia ancora chiamare con questo nome, così condizionante – è fatta di scelte alla portata di tutti. In quanto “azione volontaria per il bene comune” (Payton), può prendere la forma della messa a disposizione del proprio tempo e delle proprie competenze, della partecipazione ad attività di interesse civico, della scelta di destinare un lascito per fini solidali. Serve una filantropia diffusa e condivisa, come quella che un tempo ha portato le comunità a sostenere grandi opere comunitarie, dalle cattedrali agli ospedali. Riprendendo una tradizione europea ben radicata e dalla lunga storia piuttosto che traendo ispirazione dal modello dell’eccezionalismo filantropico americano. Perché prendersi cura della comunità e degli altri è il primo passo per reagire al senso di vulnerabilità che sta erodendo le ragioni della nostra convivenza.
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