Viviamo un’epoca in cui il braccio della morte va svuotato. C’è chi lo fa come Trump, in modo tanto plateale quanto arcaico e violento, mandando a morte i condannati federali. E chi lo fa invece in modo discreto perché evoluto e nonviolento, con atti di clemenza o di abolizione della pena di morte. È dal più antico dei continenti, l’Africa, che giungono le notizie più moderne per il loro valore umano, civile e politico. L’ultima riguarda una vicenda che come Nessuno Tocchi Caino abbiamo seguito nel tempo e da tempo. Riguarda un Paese nel cuore del continente nero, la Repubblica Democratica del Congo.
Il 2 gennaio, il Presidente Félix Tshisekedi ha graziato, tra gli altri, due uomini, il colonnello Eddy Kapend e Georges Leta, ritenuti responsabili dell’assassinio dell’ex Presidente Laurent-Désiré Kabila freddato da tre colpi d’arma da fuoco nel suo ufficio vent’anni fa, il 16 gennaio 2001, per mano di una delle sue guardie del corpo che venne poi subito uccisa. Il figlio Joseph Kabila, che gli successe alla presidenza del Paese quando non era ancora trentenne, si vide rendere giustizia di lì a poco. Nel 2003, un tribunale militare emise una trentina di condanne a morte per l’assassinio del padre. Ci fu una grande mobilitazione internazionale per scongiurare quelle esecuzioni. Decidemmo allora di incontrare il giovane Presidente. L’incontro avvenne nel palazzo presidenziale a Kinshasa il 28 giugno 2003, su una terrazza avvolta da una vegetazione che permetteva appena ai raggi del sole di accarezzarci. Con Aldo Ajello, Emma Bonino e Sergio D’Elia, gli chiedemmo, alla vigilia della formazione del nuovo governo di unità nazionale, un atto di clemenza per quei condannati a morte. Uomini che volevamo anche incontrare, come avevamo incontrato lui. Joseph Kabila, bello, riflessivo e non reattivo e brutale come invece era suo padre, ci promise che non li avrebbe giustiziati e che avrebbe mantenuto una moratoria della pena di morte rimettendo al Parlamento la più generale questione dell’abolizione. Gli regalammo il poster della campagna di Oliviero Toscani “We, on death row”, a sostegno della risoluzione ONU per una moratoria universale delle esecuzioni. Ci permise anche di visitare il carcere di Makala. Ricordo ancora come i condannati per la morte di Laurent Kabila fossero tenuti nella sezione 1, separati da tutti gli altri. Ricordo Eddy Kapend, l’ex aiutante di campo del Presidente ucciso, che ci spiegava attraverso la grata che separava la sezione dal resto del complesso detentivo, come ingiusto fosse stato il processo e di quanti e da quali gravi problemi di salute fossero afflitti là dentro.
Joseph Kabila ha governato il suo Paese per 18 anni prima che Tshisekedi vincesse le elezioni nel dicembre 2018. Durante questo tempo, è stato di parola perché ha mantenuto la moratoria delle esecuzioni mentre quell’atto di clemenza che non ha voluto o saputo concedere sembra quasi averlo voluto passare in consegna al suo successore.
Tshisekedi ha fatto bene le cose. Il 30 giugno 2020, aveva commutato le condanne a morte in ergastoli. Poi, il 31 dicembre 2020, ha stabilito che i detenuti che a quella data avessero trascorso in carcere 20 anni, venissero liberati. «Il provvedimento interessa quindi Eddy Kapend e alcuni membri del suo gruppo», ha spiegato Giscard Kusema, addetto stampa presidenziale che ha precisato come la grazia presidenziale sia una misura di portata generale e di carattere non personale. La RDC ci rivolge così un invito accorato alla grazia, alla capacità di costruire un equilibrio che sappia, nel tempo, contemperare e superare la giustizia penale. Coincidenza vuole che, il 2 gennaio, quando Eddy Kapend in RDC torna libero, il Kazakistan si libera definitivamente dalla pena di morte con la firma del Capo dello Stato Kassym-Jomart Tokayev alla legge di ratifica del Secondo Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, che obbliga gli Stati all’abolizione. Anche qui, sempre nel 2003, facemmo una missione a sostegno della moratoria in vista dell’abolizione tanto sul piano interno che internazionale.
Eravamo in viaggio per la moratoria Onu delle esecuzioni, in sintonia con i Paesi che ci accoglievano e mossi dal rispetto dello spazio e del tempo altrui, tanto politico quanto culturale, per andare verso l’abolizione e al contempo salvare vite umane.
Alla fine dell’anno appena passato, sempre dall’Africa, è giunta la notizia della commutazione in Tanzania, nel giorno dell’indipendenza, di 256 condanne a morte da parte del Presidente John Magufuli.
Queste notizie sulle commutazioni in Africa e l’abolizione in Kazakistan sono esiti naturali di un viaggio tanto avventuroso quanto vitale. Sono un’esortazione a riflettere sull’obiettivo del superamento del braccio della morte e anche sul nostro nuovo traguardo del superamento dell’istituto penitenziario in sé. È, quest’ultimo, un messaggio che spedisco oggi, certa che me lo ritroverò domani, frutto di un passato particolarmente ispirato.