Normative di nuova generazione, operanti in ambiti diversi ma tutte legate dalla stessa volontà di incidere nello sviluppo sociale della comunità favorendo collaborazioni spesso atipiche tra soggetti che operano in campi diversi, e con il comune denominatore della leva fiscale di vantaggio. Il legislatore, in altri termini, nel corso del tempo ha iniziato a riconoscere e premiare fiscalmente alcuni comportamenti virtuosi di imprese e cittadini.

È sicuramente il caso della legge antispreco, che attraverso la donazione delle eccedenze, connette la responsabilità sociale di impresa con i luoghi del bisogno, o il social bonus inserito con la riforma del Terzo Settore per il recupero di immobili pubblici. Con l’agricoltura sociale, invece, l’impresa agricola tradizionale si affaccia sul mondo della inclusione sociale e della presa in carico terapeutica di persone con disabilità o con disagio.

Il volontariato di competenza è una opportunità meno conosciuta al grande pubblico, che va sostenuta perché presenta numerosi punti di forza. Dal 2001 al 2019, la quota di imprese che ha sviluppato al suo interno progetti di responsabilità sociale è passata dal 44% al 92%. Questi numeri sono il terreno fertile per il rinnovato sviluppo di una opportunità importata dagli Stati Uniti e che in Italia esiste già dal 1998, visto che l’articolo 100 del TUIR consente alle imprese di “prestare” i propri dipendenti alle Onlus – e in generale agli enti non commerciali iscritti nel Registro unico nazionale del terzo settore – preservando la deduzione del costo del lavoro nel limite del 5 per mille dell’ammontare complessivo.

Il volontariato di competenza – o di impresa – è infatti una pratica attraverso la quale un’impresa incoraggia la partecipazione dei propri lavoratori ad attività di enti non profit durante l’orario di lavoro. Non è una cosa così scontata per il fisco, culturalmente e tecnicamente, riconoscere la deducibilità di costi estranei al regime fiscale proprio delle aziende. Ma negli ultimi dieci anni questi principi hanno visto una accelerazione e un consolidamento grazie ad un dibattito pubblico, politico e accademico, che ha iniziato a declinare la sostenibilità in tutte le sue componenti – ambientale, economica e sociale – e nella sua profondità includendo tra i soggetti attuatori responsabili le istituzioni, le imprese, il terzo settore, e i cittadini. Così come l’impresa deve investire al suo interno nella formazione continua dei propri dipendenti per il miglioramento delle performance, lo stesso principio si applica a beneficio del terzo settore e della comunità.

Si possono individuare quattro forme di volontariato d’impresa. Il “Volontariato professionalizzante”, rivolto in prevalenza a quadri o esecutivi – pensiamo ad ingegneri, agronomi, medici – cui può essere richiesto di trascorrere un periodo più o meno prolungato di tirocinio in una ONG presente in un Paese emergente. C’è poi il “Volontariato con valenza educativa”, che vede i lavoratori di un’impresa impegnati come mentori per bambini e ragazzi. In questo ambito si inseriscono attività di doposcuola, o di orientamento di soggetti fragili per favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro. Il “Volontariato di consulenza” è invece legato alle capacità tecniche del lavoratore.

Si pensi al ruolo sempre più determinante di alcune attività nel terzo settore come le raccolte fondi, la scrittura del bilancio, il marketing o l’uso dei social media, la gestione degli approvvigionamenti, o lo sviluppo di sistemi gestionali. Insomma, un volontariato che forma altri volontari e affianca alle sponsorizzazioni, alle donazioni in denaro e in beni, anche la donazione delle professionalità. Da ultimo il “Volontariato di emergenza” che molte imprese hanno sperimentato durante la pandemia o con i recenti eventi alluvionali.

Le aziende stanno iniziando ad inserire questa opportunità anche nei piani di welfare aziendale, consentendo ai dipendenti di destinare una giornata lavorativa ad attività di volontariato presso le associazioni che ciascuno sente più vicine alle proprie attitudini. Qualsiasi formula si scelga, i vantaggi di questo “meticciato” tra cultura di impresa e valori del terzo settore sono innumerevoli. Il Terzo Settore dovendosi confrontare con un modello imprenditoriale, cresce in capacità relazionale, strumenti e professionalità.

L’impresa rafforza la sua reputazione attraverso una nuova visione di perseguimento del bene comune e di responsabilità sociale, e rinsalda allo stesso tempo il senso di appartenenza e soddisfazione dei propri dipendenti. Non a caso il volontariato di impresa è anche usato come strumento di team building, per fare emergere nuove competenze in contesti inusuali, e il valore del gioco di squadra. Una azienda che oggi vuole competere sul mercato in modo dinamico, deve necessariamente fare leva sul capitale umano e sugli aspetti motivazionali intangibili. Investire sulle professionalità, conseguite nel corso degli studi ma anche nella “palestra della vita”, è in molti casi lo spartiacque tra chi subisce il mercato e tra chi invece lo sa interpretare cogliendo le evoluzioni della società.

Maria Chiara Gadda

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