Ci sono uomini che in vita hanno scritto delle pagine indelebili della storia europea ma che, troppo poco spesso, vengono ricordati. È il Dicembre del 1970 quando il mondo intero smette, per un attimo, di correre per guardare e immedesimarsi nell’inchino al Memoriale del Ghetto di Varsavia dell’allora cancelliere tedesco Occidentale Willy Brandt. Un giorno e un gesto destinati a segnare la storia, come riporta in quei giorni lo storico austriaco Hermann Schreiber sullo Spiegel: “Il Cancelliere Brandt con quel gesto confessa una colpa di cui non è responsabile e chiede un perdono di cui lui stesso non ha bisogno”. Un gesto emblematico che consacra Brandt come uomo di pace e che diventa la copertina della sua parabola politica culminata con il Premio Nobel per la pace del 1971.

L’azione e la voglia di pace e distensione di Brandt vengono, però, da molto più lontano. Vengono dagli anni della resistenza, prima in patria e poi in terra baltica con addosso i panni del soldato e, successivamente, nelle vesti istituzionali di politico socialdemocratico che diventa portavoce dello spirito di un’”altra Germania”; quell’”altra Germania” strenua oppositrice di Hitler e degli abomini del III reich. È lui a sopportare il peso di essere Borgomastro di Berlino Ovest nei giorni dell’erezione del Muro e della Crisi che colpisce la città nel 1961, dove, sin dalla posa delle prime pietre, cerca di “abbattere e superare” quel muro attraverso rapporti culturali, economici e umani tra le due parti; un pensiero che prende forma nella sua Ostpolitik che punta a distendere e normalizzare i rapporti con la parte del blocco orientale.
La politica di Brandt è una luce che si alimenta di diplomazia e lungimiranza e che riesce a vivere nel gelo di 2 blocchi continentali opposti e super armanti. E’ la sua lungimiranza che per anni rappresenta l’unico ponte di collegamento tra il mondo filoatlantista e quello filosovietico. Motivo per cui oggi, a distanza di anni, la sua Ostpolitik non può essere considerata una semplice e mera esternazione di vaghe intenzioni pacifiche, ma l’organizzazione di una effettiva politica di pace che prevede la non proliferazione delle armi atomiche, l’integrazione a Ovest e lo «smantellamento delle tensioni» a Est, come riporta e sottoscrive lo stesso cancelliere.

Questo pensiero universale, partorito e allevato nelle azioni della sua Ostpolitik, lo rende il baluardo e la voce della libertà e dell’atlantismo che combatte e pulsa ai piedi dell’imponente blocco sovietico. È Brandt ad accogliere JFK nella storica visita a Berlino del Giugno del 1963, dove, ad alta voce, rimarca la vicinanza degli USA alla Germania con la frase “Ich bin ein berliner”. E di lì a qualche anno, nel 1969, che Brandt si rende protagonista del governo di coalizione, che riesce a legare per la prima volta le anime del Partito Liberale Democratico della FDP a quelle della sua SPD; un governo che getta le basi per un dialogo con il blocco orientale e che auspica, sin dalla sua formazione, il ritorno di una Germania unita. Il sogno è quello della riunificazione che, passo dopo passo, sarebbe dovuta arrivare attraverso la bontà della Ostpolitk e delle sue innumerevoli azioni.
Rieletto cancelliere nel 1972, il suo secondo cancellierato termina con le sue dimissioni in seguito ad uno scandalo spionistico che vede coinvolto uno dei suoi segretari. Anche in questa occasione l’uomo e il politico Brandt scelgono la via della lealtà ed il rispetto verso quella popolazione e quella terra per cui ha combattuto giorno dopo giorno. Nonostante ciò, viene rieletto Presidente dell’Internazionale Socialista nel 1977 ed è tra i primi ad approdare nel Parlamento Europeo nel 1979.
Oggi, a distanza di 31 anni dalla sua morte, ci ritroviamo a ricordare le gesta di uno dei padri non dell’Europa ma dello spirito Europeo; capace di indicarci in maniera chiara e definita la via da intraprendere per far sì che ad ogni latitudine del continente si possa parlare di Europa e di Europei. Ed è, forse oggi, il momento più opportuno in questo confuso scenario internazionale per rispolverare e ricontestualizzare il coraggio della sua Ostpolitk.

Salvatore Cappabianca

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