La SAIS non è un posto qualunque per chi si interessa di politica estera: fondata nel 1943, quando si stavano per riscrivere gli equilibri geopolitici del pianeta, la Scuola di studi internazionali avanzati della John Hopkins University non è un caso che abbia sede a 1560 metri dalla Casa Bianca, sull’iconica Pennsylvania Avenue di Washington: è questa la scuola dove si è formata l’élite della diplomazia statunitense. E non vi poteva essere quindi posto migliore per il Segretario di Stato americano Antony J. Blinken per fare un discorso che ha tanto il sapore di epocale, specie se tenuto da chi della politica estera e della diplomazia a stelle e strisce è attualmente il titolare.

Eccone una selezione: al lettore siamo certi non mancherà di rilevare quanto questa “visione” – di questo stiamo parlando – sia distante da quella dell’amministrazione Trump e quanto davvero le prossime elezioni presidenziali USA siano un passaggio assai delicato per costruire il nuovo ordine mondiale.

«Ci troviamo in un momento cruciale della storia, alle prese con la questione fondamentale della strategia, come la definiva Nitze: “Come possiamo arrivare da dove siamo a dove vogliamo essere, senza essere colpiti da una sciagura lungo la strada”.

Cominciamo da dove siamo. Il panorama internazionale che tutti voi state studiando è profondamente diverso. La fine della Guerra Fredda ha portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, la cooperazione internazionale, l’interdipendenza economica, la liberalizzazione politica e i diritti umani.

Ma quello che stiamo vivendo ora è più di un test dell’ordine post-Guerra Fredda. È la sua fine. Decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a un’intensificazione della competizione con le potenze autoritarie. La guerra di aggressione della Russia in Ucraina è la minaccia più immediata e più grave. Nel frattempo, la Repubblica Popolare Cinese rappresenta la sfida più significativa a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma ha sempre più il potere per farlo.

I Paesi e i cittadini stanno perdendo ogni fiducia nell’ordine economico internazionale e questa fiducia è scossa dai suoi difetti sistemici: governi che hanno usato sussidi infrangendo ogni regola, proprietà intellettuali rubate e pratiche che distorcono il mercato. Tecnologia e globalizzazione che hanno svuotato e delocalizzato interi settori industriali, e politiche che non hanno fatto abbastanza per aiutare i lavoratori e le comunità che sono state lasciate indietro. La disuguaglianza che è salita alle stelle. Più queste disparità persistono, più aumentano la sfiducia e la disillusione delle persone che sentono che il sistema non sta dando loro un trattamento equo. E più esacerbano altri fattori di polarizzazione politica, amplificati da algoritmi che rafforzano i nostri pregiudizi invece di permettere alle idee migliori di salire in cima.

Altre democrazie sono in pericolo. Sfidate dall’interno da leader eletti che sfruttano i risentimenti e fomentano le paure, erodono l’indipendenza della magistratura e dei media, arricchiscono gli amici degli amici, reprimono la società civile e l’opposizione politica. E sfidate dall’esterno, da autocrati che diffondono disinformazione, che si armano di corruzione, che si intromettono nelle elezioni.

Ognuno di questi sviluppi avrebbe già rappresentato una sfida serissima all’ordine post-Guerra Fredda. Insieme, lo hanno stravolto. Ci troviamo quindi in quello che il Presidente Biden definisce un “punto di flesso”. Un’era sta finendo, una nuova sta iniziando, e le decisioni che prendiamo ora daranno forma al futuro per i decenni a venire.

Gli Stati Uniti stanno guidando questo periodo cruciale da una posizione di forza. Una forza che si fonda sia sulla nostra umiltà che sulla nostra fiducia. Umiltà perché dobbiamo affrontare sfide che nessun Paese può affrontare da solo. Perché sappiamo che dovremo guadagnarci la fiducia di una serie di Paesi e cittadini per i quali il vecchio ordine non ha mantenuto molte delle sue promesse. Ma perché abbiamo dimostrato più volte che quando l’America è unita, possiamo fare qualsiasi cosa.

Porteremo avanti questa visione guidati da quel senso di “illuminato interesse personale” che sa animare da tempo la leadership statunitense nei suoi momenti migliori. I nostri concorrenti hanno una visione fondamentalmente diversa. Vedono un mondo definito da un unico imperativo: la conservazione e l’arricchimento dei regimi. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare il proprio popolo, i propri vicini e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante.

Stiamo lavorando per ampliare le nostre amicizie nel mondo in modi completamente nuovi. Lo facciamo attraverso quella che mi piace chiamare la “diplomazia a geometria variabile”. Partiamo dal problema che dobbiamo risolvere e lavoriamo da lì, assemblando il gruppo di partner della giusta dimensione e della giusta forma per affrontarlo.

Le democrazie amiche sono sempre state il nostro primo punto di riferimento per la cooperazione. Lo saranno sempre. Tuttavia, su alcune priorità, se procediamo da soli, o solo con le democrazie di cui siamo amici, non riusciremo a farcela. Molte questioni richiedono un insieme più ampio di potenziali partner. Siamo quindi decisi a collaborare con qualsiasi Paese, anche con quelli con cui non siamo d’accordo su questioni importanti, a patto che vogliano fare qualcosa per i loro cittadini, contribuire a risolvere le sfide comuni e rispettare le norme internazionali che abbiamo costruito insieme.Questo è il cuore della nostra strategia. E la stiamo perseguendo.

Stiamo rinnovando le nostre alleanze e le nostre partnership e ne stiamo creando di nuove. Le stiamo intrecciando in modi innovativi e che si rafforzano a vicenda – tra le varie questioni e tra i vari continenti: basti pensare a tutti i modi in cui abbiamo sostenuto l’Ucraina. Ecco come si presenta la geometria variabile: per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo. In terzo luogo, stiamo costruendo nuove coalizioni per affrontare le sfide condivise più difficili del nostro tempo, come ad esempio colmare il divario infrastrutturale globale o affrontare la crisi alimentare globale. Stiamo adottando un approccio simile alle tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale. Infine, stiamo riunendo le nostre vecchie e nuove coalizioni per rafforzare le istituzioni internazionali che sono fondamentali per affrontare le sfide globali.

Quando le Pechino e le Mosca del mondo cercheranno di riscrivere – o di abbattere – i pilastri del sistema multilaterale; quando sosterranno falsamente che l’ordine esiste solo per promuovere gli interessi dell’Occidente a spese degli altri – un coro globale crescente di nazioni e persone si alzerà in piedi per dire: No, il sistema che state cercando di cambiare è il nostro sistema, ci è utile».

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva