Il ricordo
A 75 anni da Auschwitz abbiamo bisogno della memoria per sconfiggere il razzismo
Chi passeggiasse oggi per le vie di Cracovia, in Polonia, troverebbe decine di offerte, ad ogni angolo di strada, di tour organizzati, con guida, con pullman modernissimi, per il Lager di Auschwitz-Birkenau, insieme ad una deviazione per le miniere di sale, insieme ad altre possibilità turistiche della zona. Un luogo offerto come altri alla possibilità del turista.
La memoria di ciò che è stato spero non lasci mai il posto al pellegrinaggio verso ciò che è stato. Sono cose diverse, e molto. Non dovremo mai idolatrare il ricordo, mai attribuire alla memoria un rito consolatorio, come se bastasse ricordare per essere. Non basterà, il ricordo si affievolirà, scomparirà un giorno, inevitabilmente, anche l’ultimo testimone.
Ha scritto giustamente David Bidussa in un celebre saggio che tratta appunto di questo: «Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “Mai Piú” né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori della memoria»; ancora Bidussa: «La memoria non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica».
Ecco, a noi serve dire, a 75 anni dall’apertura del portone di Auschwitz che di quella memoria e di quella pubblica coscienza abbiamo bisogno oggi. Non serve illudersi che la memoria, intesa come testimonianza di per sé possa vaccinarci. Con altre forme, con altra intensità, verso soggetti diversi, noi dobbiamo dire che la violenza devastante tra esseri umani, in ragione del loro essere, delle loro radici o tradizioni, non è stata debellata, non completamente.
Che non è stato sconfitto l’antisemitismo, la sua millenaria radice, che l’insanabile sete di nemici da additare per spiegare i propri dolori è ancora vivace, che la voglia di ricercare la difesa dietro un proprio confine invalicabile è molto di moda; che il nazionalismo sembra ancora essere considerato da molti la medicina per il proprio disagio, per le proprie paure, per la propria rabbia. E con esso il razzismo.
Papà decise di iscriversi all’università molto tardi, molto dopo, già marito e tre volte padre, lo fece mantenendo la promessa che aveva fatto alla mamma, di studiare e laurearsi. Lo ricordo di notte, mentre noi andavamo a dormire, chino sui libri, nella cucina, cullato dal rumore della lavastoviglie. Lo fece, sicuro della forza della cultura per sconfiggere il mostro. Io lo considero un giuramento anche per me.
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