C’era qualcosa di cui mio padre non parlava quando ero bambino. Io non sapevo, e non dovevo sapere. Papà aveva buchi sulle gambe, e un alluce mozzato; un numero singolare marchiato sul braccio e spesso molte lacrime, ma non una parola che spiegasse quei segni e quel dolore.

Per me bambino il suo numero sul braccio era un modo per ricordarsi il numero di telefono, le ferite sulla gamba erano la gambina malata come la chiamava lui, l’alluce era nato così, tutto ricurvo verso se stesso, come conchiglia chiusa segreta. Treblinka era un generale tedesco e quando appariva l’immagine di Hitler in televisione, quello era un porco, come papà urlava fino alle lacrime di fronte allo schermo. Ma io non sapevo chi fosse.

Mamma, mamma, era una parola molto ricorrente e molto pianta, parlava molto della sua mamma di quando lui era bambino, dei suoi occhi bellissimi, del suo sorriso dolce, del suo grembiale candido. Nella Firenze dove io avevo conosciuto solo l’altra nonna. Quella sopravvissuta. Poi venne la lettura. Da solo. Adolescente. Nel salotto con le pareti fatte di libri, vicino alle immagini dei tarocchi, appesi, il fato, l’impiccato, il ciabattino…

Libri devastanti. Con immagini insopportabili. Veri traumi appesi all’albero della conoscenza di un ragazzino figlio di un sopravvissuto di Auschwitz che cresce. Corpi nudi, ammassati, bambini, sigle, casacche, racconti di violenze, di torture, di cani sanguinari. Rarissime in casa le immagini della famiglia che non c’era più.

Auschwitz è stato per me, per lungo tempo, da bambino, un non-luogo della memoria della nostra famiglia. Una parola sconosciuta e da onorare. Sacra, terrificante e ignota. Un nome che vagava nell’aria di casa, quando la mamma mi allontanava perché papà piangeva, nei silenzi di fronte ad un nome, sulla lapide, fuori dalla sinagoga di Firenze, nelle urla quando qualcuno metteva il pane al contrario a tavola, quando il letto non era rifatto alla perfezione. Nella commozione per una musica o per una parola.

Nel gelo quando incontravamo un tedesco della generazione di papà. Quando papà si raggelava nel guardarlo. Crescevo con la consapevolezza di un male esistito e terribile, inspiegabile e non spiegato; a cui dovevo l’assenza di nonni, nonne e zii e zie e cugini.

Il non-luogo della mia infanzia è diventato nel tempo, per molti nel mondo, non per tutti, il monumento immateriale all’abisso del 900. Che tutto aveva inghiottito di secoli di civiltà. Auschwitz, il luogo dove la mia famiglia era stata cancellata, tutta meno mio padre. Il luogo dove non ho potuto vederli. Un luogo insieme mio, personalissimo, e universale. In quel buco nero della nostra esistenza ci siamo tutti noi. Chi discende dalle vittime e chi dagli aguzzini, chi discende da chi si ribellò, e chi da coloro i quali furono indifferenti.