Senza memoria non c’è futuro. E non c’è cosa peggiore dell’oblio. Il tempo scorre inesorabilmente e un giorno verrà che non vi saranno più testimoni diretti della più grande tragedia della storia dell’umanità. Custode della memoria. Con una capacità straordinaria di saper parlare ai giovani, alle centinaia di scolaresche che nel corso della sua lunga vita ha accompagnato nelle visite in quei campi di sterminio che lui aveva conosciuto direttamente, dove aveva perso parenti e amici. Era uno degli ultimi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, Piero Terracina, morto domenica all’età di 91 anni a Roma, la città in cui era nato, la città che ha sempre amato. Chi scrive ha avuto l’onore di conoscerlo di persona, e di accompagnarlo in una delle visite ad Auschwitz organizzate per gli studenti dal Comune di Roma. In quel silenzio irreale, carico di dolore e di ferite che il tempo non lenisce, Piero Terracina sapeva trovare le parole giuste, la narrazione più adatta per comunicare a ragazze e ragazzi spesso poco più che adolescenti. Sapeva toccare le corde dei sentimenti ma anche far crescere interesse, voglia di saperne di più. La conoscenza è il miglior antidoto alla demonizzazione dell’altro da sé, conoscere perché certe tragedie non abbiano a ripetersi. L’antisemitismo non è un male del passato, ma un cancro che può riprodursi e devastare la società, ipotecarne il futuro: c’era questa convinzione alla base dell’impegno del “sor Piero”. Lui che nell’autunno del 1938, a causa dell’emanazione delle leggi razziali in Italia, fu espulso dalla scuola pubblica.

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«Perché sei ebreo, mi disse la mia insegnante tutto questo è accaduto qui da noi, in Italia – ebbe a ricordare in uno dei tanti incontri con gli studenti Terracina – la Germania su questo non c’entra niente: è stata una persecuzione che il Governo italiano ha voluto attuare verso i suoi cittadini: è stata una cosa ignobile. Dovetti andare in una scuola ebraica dove i miei amici mi protessero, mi accolsero nelle loro case. Senza la loro solidarietà non ce l’avrei fatta: li ho incontrati nuovamente anche una volta uscito dal lager. Devo molto al loro appoggio». Terracina proseguì gli studi nelle scuole ebraiche fino a che, dopo essere sfuggito al rastrellamento del 16 ottobre 1943, venne arrestato a Roma, il 7 aprile 1944, su segnalazione di un delatore, con tutta la famiglia: i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David. Detenuti per qualche giorno nel carcere di Roma di Regina Coeli, dopo una breve permanenza nel campo di Fossoli, il 17 maggio del ’44 furono avviati alla deportazione. Degli otto componenti della sua famiglia Piero Terracina è stato l’unico a fare ritorno in Italia. Al consolatorio “italiani brava gente”, non aveva mia creduto. Ciò che lo preoccupava maggiormente, mi confessò una volta, non era il becero antisemitismo di una minoranza neofascista, imbevuta del vecchio armamentario ideologico del ventennio, ma l’antisemitismo “inconsapevole” quello dell’”ebreo avido”, degli stereotipi che diventano quasi senso comune.

Come pure l’antisemitismo che si maschera dietro l’antisionismo, per cui Israele non è criticato per ciò che fa ma per quel che è: il focolaio nazionale ebraico. «Oggi vi racconto l’inferno: non quello che vi ha raccontato Dante, né quello delle religioni. Io all’inferno ci sono stato e sono qui per raccontarvelo. L’inferno che ho vissuto io si chiama Auschwitz-Birkenau». Ad ascoltarlo, quel giorno nell’Auditorium di Parma strapieno, c’erano tantissimi giovani. Sfoglio oggi gli appunti: a chi gli domanda qual è stato il momento peggiore, lui risponde: «Difficile scegliere. Ho pianto in una sola occasione: quanto i miei fratelli mi raggiunsero la sera dopo il lavoro e mi dissero che mio zio, entrato con noi al campo, era stato selezionato per andare a morire nelle camere a gas. Mi riferirono che aveva detto di non essere tristi per lui, perché le sue sofferenze sarebbero finite presto». Si ferma qui, il racconto dell’inferno di Terracina. «Non credo di poter andare oltre – ammette – ho cercato di evitare di entrare nei particolari dell’orrore: potrebbe creare raccapriccio e quasi certamente il conseguente rifiuto. Perché gli esecutori dell’immane delitto erano uomini come noi, come tutti».

È riuscito a perdonare? È una domanda che si è sentito rivolgere innumerevoli volte. «No, non posso perdonare – è la sua risposta – ci sono colpe che non possono essere perdonate. Il perdono è sempre individuale: nessuno mi autorizza a perdonare per i milioni di persone che sono state assassinate. Io non posso perdonare per la mia famiglia. Nessuno mi ha lasciato la delega per il perdono, e io non perdono». Una lezione di vita. Il lascito più grande di un grande uomo.

Umberto De Giovannangeli

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