Ecco il giorno in cui tutto è cambiato: mercoledì 2 aprile, dell’anno del Signore 2025. Alle 4 del pomeriggio, ora di Washington, Donald Trump annuncia al mondo il “Liberation Day”, il fatidico, temuto e atteso giorno in cui la promessa di imporre dazi commerciali al mondo è divenuta realtà. Sull’Europa scende la lama che recide un cordone ombelicale che univa le due sponde dell’Oceano Atlantico. Fine di un amore. Da questo preciso istante, gli europei sono passati dall’adolescenza – vissuta più o meno passivamente a casa del padre americano – a una maturità ottenuta obtorto collo. Un passaggio occultato nella coscienza come ogni incubo da cui si rifugge, forse ben oltre il dovuto, per il timore di prendere atto di una verità, spietata come tutte le verità: la vertiginosa inevitabilità della solitudine.

L’Europa è sola. L’antico “amico” a stelle e strisce ha deciso per un’inversione di rotta repentina e drammatica, in un certo senso, per il vecchio continente, che non è più al centro della storia, né protagonista delle vicende globali. Non le guida più, come dimostrano le scelte di Trump: le subisce. Ed è evidente che non si tratta solo di una ritorsione economica, benché si fondi su molte ragioni che riguardano le vicende del mercato statunitense. È un cambio di paradigma, politico certamente, ma, prima di tutto, una scissione culturale, antropologica. Si staglia all’orizzonte una nuova America che non è più quella un po’ ingenuamente sognata dalle capitali europee: patria della democrazia, dei valori umani condivisi, delle libertà agite e faro gemello dell’Occidente. La fratellanza è finita in un mattino, con una scrollata di spalle tanto indifferente quanto feroce.

Semmai ci fosse ancora di là dal mare un qualche sentimento di devozione verso le radici europee, una qualche sorta di vicinanza, di comunanza di sentimenti e visioni, tutto ciò è ormai storia di ieri. E agli europei tocca un risveglio amaro, senza che ci sia stato il tempo di prepararsi all’alluvione. Un’opportunità? Può darsi. Come in ogni evento traumatico, la reazione è quella che decide il corso degli eventi successivi. Ma l’Americanexit trumpiana è una di quelle ferite che non si rimarginano del tutto, perché è un rifiuto unilaterale di una relazione, la negazione di un’appartenenza, la messa in discussione di significati e valori che fino a ieri davamo per scontati. Con violenza, il presidente americano ha spedito un messaggio chiaro: non ci interessa più, noi siamo altro da voi. E non solo per bieco interesse, questo è ciò che si fatica a comprendere, ma perché non c’è più identificazione. L’uomo americano semplicemente non coincide più con l’uomo europeo nei suoi tratti fondamentali. Non ci sono più collanti che siano sufficienti a costituire una base comune.

Anche la religione cristiana, punto centrale della fede nella missione americana come dichiarato dalla Costituzione e su ogni dollaro che la Banca centrale manda in terra, è ormai un elemento sbiadito di appartenenza. Il cammino dei cristiani e soprattutto dei cattolici americani va in ordine sparso rispetto alle cattedrali europee, con una sua identità autonoma che non basta a colmare una distanza che un tempo era solo geografica, mentre oggi è un incolmabile vuoto che separa due dimensioni psicologiche e due percezioni della realtà.

La realtà americana non è più la realtà europea. Questo è il messaggio brutale, spietato, immediato e senza spazio per i fraintendimenti che risponde al nome “Liberation day”. È un nuovo scenario in cui i pilastri della civiltà europea, quell’umanesimo democratico post illuminista, fondato sui diritti, sulle libertà e sull’inviolabilità della persona, sono aggrediti da nuovi e antichi modelli alternativi di società. Certo, la botta americana è quella che giunge più forte, perché una certa retorica occidentalista pensava che mai quella mano avrebbe potuto tradire e ferire la propria sorella. Eppure, è proprio questo il trauma che l’Europa deve riconoscere per ritrovare sé stessa. Se è ancora una civiltà è ora di dimostrarlo. Ma non con parole d’ordine scontate, chiamate alle armi più disperate che percorribili, indignazione isterica o piani economici onirici. Strade già percorse, svanite come neve al sole di fronte a un ringhio a stelle e strisce. Serve riflettere su quale Europa vogliamo, perché l’Unione di oggi suona come la vecchia battuta di Groucho Marx: “Non vorrei mai fare parte di un club che annoverasse fra i suoi membri qualcuno come me”.