Ci mancavano i contadini polacchi! Sì, quelli che da qualche settimana stanno presidiando le frontiere con l’Ucraina per controllare i prodotti agroalimentare che fanno ingresso in Polonia – e quindi in Ue, visto che si tratta di un valico Schengen – da una terra martoriata da tre anni di conflitto e verso la quale l’Europa si è spesa in tutto e per tutto. Proprio per fare fronte comune contro la Russia, Varsavia e Kyiv hanno messo da parte rancori storici, che risalgono al pieno del Novecento.

Soprattutto la prima si è dimostrata disponibile e in grado di aumentare le spese militare e arrivare a sfiorare, già entro la fine di questo anno, il 5% richiesto da Trump. Ha inoltre accettato di accogliere prodotti agricoli ucraini, a sostegno dell’economia d’oltrefrontiera. Tuttavia a quale prezzo? Polonia e Ucraina hanno un settore primario molto simile: colture intensive di cereali, riforma agraria post comunista fatta a marce forzate che hanno portato al consolidarsi di poche grandi aziende. Quello che lamentano gli agricoltori polacchi oggi è che i prodotti ucraini debbano essere ben accolti, nonostante non seguano i rigorosi standard Ue di sostenibilità e produzione cui sono soggetti invece i prodotti polacchi. A loro giudizio, si tratta quindi di concorrenza sleale. E questo incide anche sulla popolarità del conflitto.

Tre anni fa, fu proprio la Polonia la prima nazione europea ad accogliere i primi profughi dalle zone di guerra. Oggi si è arrivati a oltre un milione di ucraini lì rifugiati dopo l’invasione. Tuttavia, questo pathos comune sta scemando. Le proteste al confine ne sono un sintomo che si riallaccia al sondaggio del Centro per la ricerca sull’opinione pubblica (Cbos, l’Istat polacca per semplificare) di dicembre 2024, che rivelava come, anche in Polonia, il 55% degli intervistati fosse favorevole a porre fine al conflitto, anche se ciò avrebbe comportato la cessione di territori da parte dell’Ucraina.

Quell’“anche” è perché, nelle stesse settimane, il Guardian segnalava un’indagine di YouGov che invece stimava come in Italia, la percentuale di intervistati favorevoli a una pace negoziata fosse salita al 55%, in Spagna al 46%, in Germania al 45% e in Francia al 43%, con incrementi tra gli 8 e i 10 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Era la fine del 2024. Non sono passati due mesi. Ma nel frattempo è successo di tutto. I fatti, remoti e sconosciuti in Polonia, vanno a sommarsi all’elettroshock (Macron cit.) che l’Europa ha subito appena la scorsa settimana e per la quale è stato indetto il summit di emergenza a Parigi.

Tuttavia, le proposte degli agricoltori polacchi mettono in luce un ulteriore elemento della crisi del Vecchio continente. Caso mai fosse stato necessario. Il mondo produttivo è tutt’altro che allineato con le (in)decisioni di Bruxelles. Il fatto che una mano tesa all’Ucraina indebolisca l’agricoltura di un Paese membro Ue non va bene. Come altrettanto non va bene che le acciaierie di tedesche, italiane e polacche abbiano subito un impatto significativo a seguito dell’eliminazione, nel 2022, dei dazi doganali Ue sull’importazione dell’acciaio ucraino per sostenere l’economia di guerra del Paese. E ancora i trasporti: chiuse le rotte del Mar Nero, le merci hanno viaggiato su strade e ferrovie, con autotrasportatori ucraini disponibili a fare dumping per sbaragliare la concorrenza interna all’Ue. È evidente che, tre anni fa, così come Putin pensava a una Blitzkrieg ed è stato sconfessato, altrettanto l’Europa prese delle decisioni moralmente giuste, ma senza calcolare le conseguenti distorsioni di mercato.

Il problema è però di più ampio respiro e rientra nei rapporti commerciali tra noi e il resto del mondo in cui spesso sembra che all’Europa piaccia fare la fine di Tafazzi. Sono molti i casi in cui i prodotti domestici europei sono regolamentati al dettaglio, mentre quelli di importazione sono soggetti a leggi più lasche. Lo si era visto alla fine dello scorso anno con la firma dell’accordo Mercosur-Ue. Anche in quel caso, gli agricoltori – francesi però – si erano dichiarati vittime di un trattato imposto dall’alto. Al contrario la manifattura e l’automotive ne aveva esaltato i vantaggi. Ora che siamo sotto attacco dagli Usa, bisogna capire quanto la linea preferenziale con il Sud America sia vantaggiosa, oppure sia necessario che venga rafforzata.

Prima di risolvere questa incognita, però, va affrontato il nodo della coesione tra Bruxelles e i suoi Stati membri, la cui assenza incide negativamente tanto quanto i dazi interni denunciati da Draghi l’altro giorno sul Financial Times. La dipendenza dalla domanda estera e di commodity, che proprio dall’estero devono arrivarci per alimentare la nostra industria, sono un handicap che la guerra in Ucraina ha fatto esplodere improvvisamente e che, in tre anni, non abbiamo saputo risolvere.