Alla fine Ursula von der Leyen ce l’ha fatta. Con un mese di ritardo, il Parlamento europeo riunito a Strasburgo dà il via libera alla nuova Commissione Ue con 461 voti favorevoli, 157 contrari e 89 astenuti. I tre principali gruppi – Popolari, Socialisti e democratici e Renew Europe – rappresentano l’asse dell’esecutivo comunitario. Un risultato insperato fino a qualche settimana fa: nel luglio scorso, infatti, i sì dei parlamentari europei furono solo 383. La maggioranza è perfino più ampia di quella che sostenne la Commissione precedente, guidata da Jean Claude Juncker, che cinque anni fa aveva ottenuto 423 voti a favore. L’attuale esecutivo UE, inoltre, è quello con la maggiore presenza di donne nella storia. «Abbiamo costruito un’équipe europea eccezionale, oggi chiedo il vostro sostegno per un nuovo inizio per l’Europa», dice la presidente eletta della Commissione europea in plenaria al Parlamento europeo. «Nei prossimi 5 anni – aggiunge – la nostra unione porterà avanti una trasformazione di società ed economia, è la cosa giusta da fare e non sarà semplice». La von der Leyen cita più volte Vaclav Havel («è la cosa giusta da fare perché è giusta, non perché è facile») per far capire che l’Europa – e l’essere europei – è, appunto, “la cosa giusta da fare”.

Il punto chiave di questo voto? Eccolo: si consolida il quadro delle forze europeiste mentre viene respinto l’attacco dei populisti (sia esterni che interni) all’Unione. Bisogna ricordare, infatti, che la stabilità e la forza dell’Unione europea sono sotto scacco da alcuni anni. Sul piano internazionale, il populismo di Trump ha fortemente indebolito la posizione dell’Europa. Da un lato, il disimpegno americano rispetto alla sicurezza atlantica, e, dall’altro, l’affermazione di una politica protezionistica, costringono il Vecchio Continente a prendere coscienza di una nuova fase dei rapporti transatlantici e della necessità di fare a meno dell’aiuto degli Usa sia sul piano della difesa che su quello dell’economia. A ciò si aggiunga la sfida che proviene dal capitalismo autoritario della Cina e dall’espansionismo illiberale della Russia: entrambi i paesi ricavano vantaggi – economici o politici – dalle insicurezze europee.  Ma il nemico più subdolo per l’Ue è quello interno. La Brexit ha creato una lacerazione profonda nell’identità comunitaria e per la prima volta un paese si separa dalla famiglia europea. In più, la lentezza di questo lungo addio moltiplica l’instabilità dei rapporti interni tra gli Stati membri e rischia di mandare in tilt le già stressate istituzioni europee. Ultima ma non ultima, la progressiva emersione dei populismi di destra e di sinistra a livello nazionale ha fatto il resto. In questi anni i paesi di Visegrad – per i quali è stato coniato il nuovo e inquietante termine di ‘democrazie illiberali’ – hanno interpretato il ruolo del ‘tumore’ nel corpo sano. Con tutti i rischi connessi di un ulteriore contagio. E nei paesi occidentali sono cresciuti esponenzialmente i movimenti populisti: basti pensare alla Francia della Le Pen e dei gilet gialli, all’Italia della Lega e del M5s, alla Germania di Afd, e via elencando.

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Alle elezioni europee di quest’anno i cittadini hanno posto un freno alla deriva populista. Le forze contrarie all’Europa sono cresciute, ma non al punto da diventare una maggioranza coerente. Sui banchi di Bruxelles e di Strasburgo, il ridimensionamento di socialisti e popolari – i partiti tradizionali che hanno costituito l’asse di governo dell’Europa – è stato riequilibrato dalla crescita dei verdi e dei liberali di Renew Europe. In più, il M5s aveva già scelto in estate – nel momento di massimo dissidio interno con la Lega e grazie alla diplomazia del presidente Giuseppe Conte – di sostenere la von der Leyen, rafforzando così la compagine europeista.  Quest’ultima, ovviamente, resta molto frammentata. Lo si è visto nel corso del processo di composizione e di insediamento della Commissione. Da un lato, il Parlamento sfibrato dalle fibrillazioni della maggioranza: ricordiamo in proposito le perplessità del gruppo socialista e le dinamiche interne del Ppe che deve gestire i parlamentari ungheresi di Orban. Dall’altro, il Consiglio bloccato dai dispetti reciproci che gli Stati si sono fatti in questi mesi, a causa anche di una architettura europea complicata e farraginosa nella quale la dimensione intergovernativa e quella comunitaria sono perennemente in tensione.

E l’Italia? Che ruolo svolgerà in questo lungo cammino? Difficile dire con un governo nazionale così debole e anonimo. Intanto, Paolo Gentiloni intasca la stima della Presidente che gli affida la delega al coordinamento delle politiche europee per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’agenda 2030 dell’Onu. «Gentiloni ci crede – dice von der Leyen – e io credo in lui».
La Lega – respinto nei giorni scorsi da Donald Tusk, ex primo ministro della Polonia, presidente uscente del Consiglio Europeo e nuovo presidente del Ppe, il tentativo di Berlusconi di portare i leghisti tra i popolari europei – vota con Fratelli d’Italia contro la Commissione, presidiando la causa sovranista. A favore votano, come previsto, gli eurodeputati di Pd, Italia Viva, Azione, Forza Italia e Svp. Dieci eurodeputati grillini dicono sì, ma il M5s si spacca, registrando le astensioni di Eleonora Evi e Rosa D’Amato e i voti contrari di Piernicola Pedicini e Ignazio Corrao. Un rigurgito di populismo che porta alla crisi? A breve no, ma la tensione nel Movimento resta una mina vagante per la tenuta del governo.

Vittorio Ferla

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