L'intervista
Anna Finocchiaro: “Manifestazione per Giulia Cecchettin? La rivoluzione delle donne è rimasta l’unica non sconfitta del ‘900”

Anna Finocchiaro, sei stata Ministro per le Pari Opportunità nel primo Governo Prodi. Sono passati quasi trent’anni, com’è cambiata la situazione nella parità di genere?
«E’ cambiata perché c’è stato uno straordinario avanzamento nel senso della libertà, dell’autonomia e dell’affermazione delle donne in moltissimi campi della vita sociale e pubblica. Molte donne ricoprono ruoli di responsabilità, ma la situazione è ancora tutta in divenire. Per usare un’espressione di Alberoni, siamo in una “fase perdurante di stato nascente”, in cui a fronte di questa affermazione persistono contraddizioni gravissime, come il fatto che l’accesso delle donne al mondo del lavoro sia ancora limitato, che perdurino disparità salariali e che assistiamo a fenomeni di incapacità di adeguamento al nuovo ruolo femminile, di cui la violenza nei confronti delle donne è uno degli aspetti».
L’incapacità della società di riorganizzarsi in funzione del ruolo diverso che le donne hanno è un fatto strutturale che non riesce a fare grandi passi avanti.
«Sicuramente, e registra tra l’altro elementi di particolare contraddittorietà. L’Istat e gli osservatori internazionali rilevano che negli ultimi anni è in aumento la violenza letale mentre è diminuita quella non letale all’interno delle famiglie, che per molti secoli è stata un elemento strutturale della relazione coniugale. Ricordiamo che la Cassazione dichiara inapplicabile lo ius corrigendi alla moglie solo nel 1956 e che fino alla metà del ‘900 lo stupro coniugale non era valutato come reato, che nel nostro paese la legge sulla violenza sessuale è del ‘96, e che solo dopo arrivarono i provvedimenti sui maltrattamenti in famiglia. Quindi sparisce la forma tradizionale della violenza sulle donne, il fatto che il capofamiglia usasse i metodi forti, che questo venisse tollerato socialmente, per cui fino agli anni ‘50 e ‘60 in Italia che un marito battesse la moglie veniva “tollerato” dal parroco come dal maresciallo dei Carabinieri del paese, perché “era un lavoratore”, per “l’unità della famiglia” e l’uso della violenza sulla moglie in qualche modo non faceva scandalo. Aumenta però la violenza letale, perché la pulsione al controllo e dominio si confronta col fatto che stiano sparendo del tutto soggezione e “obbedienza” delle donne».
L’omicidio di Giulia Cecchettin ha avuto grande eco mediatica. Si parla di patriarcato, di svalutazione dei ruoli educativi, di educazione sentimentale. Mi sembra sia sempre più difficile affrontare un fenomeno nella sua complessità. Tu che ne pensi?
«E’ un fenomeno profondissimo. Che si produca anche tra i giovanissimi significa che esiste un disagio nella relazione tra uomo e donna talmente forte e radicato nella costruzione psicologica, emotiva e relazionale che non può che farci riflettere sul fatto che il vecchio sta morendo, e sta morendo per la volontà, la forza e la determinazione della libertà femminile. Ciò che resta del vecchio, una primazia maschile, non riesce più ad adeguarsi a questo mutamento, non trova più le parole, i gesti, i modelli, per cui un ragazzo viene preso da una sorta di panico, non ha più riferimento. La costruzione di questo riferimento è lunga e difficile. In questi giorni ho letto dei commenti social, scritti da giovani, sull’uccisione di Giulia che dicono “beh forse lei non era quella brava ragazza che sembrava…”, come se questo, ammesso che fosse vero e non è, “legittimasse” una violenza fino all’omicidio. Dall’altra parte c’è questa guerra all’ultimo sangue sulla parola patriarcato che io uso, anche se non si riferisce al modello patriarcale tradizionale ma a uno fortemente innervato dal fenomeno sociale della libertà e della presa di autonomia delle donne. E’ un lavoro incredibile da fare non certo litigando sulle parole, perché il tema è una difficoltà nella relazione tra i sessi. Se avessi un figlio maschio sarei preoccupata per un ragazzo che si muove in un contesto in cui non trova il suo posto, da una parte incalzato da donne determinate e competitive (pensiamo all’elemento della competizione negli studi nella vicenda di Giulia e Filippo), dall’altra si imbatte nella nostalgia di un ordine costituito, nel quale esiste la primazia maschile che tutto governa. Ma nel mondo che cambia così tumultuosamente, per una civiltà democratica basata su uguaglianza e parità, come si può pensare che a tutto questo si provveda solo con una più aspra e forte sanzione penale? Evidentemente no, è un lavoro molto più complicato che riguarda tutta la società».
Società che ha visto anche la pandemia che ha coinciso, secondo varie analisi, con un aumento significativo dei femminicidi in America ed Europa.
«Il lockdown ha naturalmente esasperato i conflitti all’interno delle famiglie, per la ristrettezza dei luoghi o l’incapacità di trovare alleanze e solidarietà fuori. Ma io penso sia un fatto strutturale, è proprio un processo. Stanno montando gli effetti di una rivoluzione delle donne, l’unica rivoluzione non sconfitta del 900, che porta sconquasso, perché distrugge ordini e sistemi ordinati secondo principi che non funzionano più. E questo naturalmente crea disagio e difficoltà. Riorganizzare intorno ad un pensiero diverso che riconosca pienamente la libertà delle donne è un lavoro che durerà decenni, perché si sono fatte strada da sole eppure rimangono pozze di arretratezza anche nelle cose meno evidenti. Ci sono voluti 20 anni con la legge sulla violenza sessuale per trasformarlo in un delitto contro la libertà piuttosto che contro la moralità, ma dopo tre sentenze importanti della Corte ancora non riusciamo a fare una legge sul doppio cognome, perché è fortemente simbolica. Nel codice civile non esiste una norma che prescrive che al figlio legittimo venga imposto il cognome del padre. Non era necessario scriverlo, è sempre stato così dal diritto romano in poi, tanto che la Corte è costretta a derivare la norma da un complesso di norme “laterali”. Perché questa legge quindi non viene approvata? Vengono opposte ragioni ridicole, ma la verità è che tocca un nodo simbolico. Siamo di fronte alla rivoluzione e dobbiamo attrezzarci perché questa rivoluzione non abbia vittime. Non mi riferisco solo a quelle del femminicidio, ma a un disagio diffuso di ragazzi che possono non trovarsi attrezzati di fronte alla ordinarietà di una relazione fondata sul rispetto con le loro compagne, amiche, fidanzate, mogli. Per questo è importante che gli uomini prendano la parola, perché avranno tanto da dire su questo e anche se in forma problematica e non pienamente adesiva, lo dicano, perché questa difficoltà venga fuori tutta».
In tema di norme penali a tutela delle donne ci sono stati cambiamenti. Pensiamo al reato di stalking, o alle molte leggi sul femminicidio approvate ultimamente dal Parlamento. Possiamo dire che il legislatore la sua parte l’ha fatta?
«Sì, perché ha individuato e descritto il fenomeno ed è già un fatto straordinario dal punto di vista della cultura e del sentire sociale, non solo della giurisdizione. Da ministro delle Pari Opportunità, quando introdussi le prime norme sull’allontanamento del maltrattatore dal domicilio domestico, ricordo la discussione in Commissione Giustizia, tutta composta da eccellenti parlamentari e ottimi giuristi. Eppure l’obiezione che mi si fece era “allontanato dal domicilio, purché non sia il proprietario dell’abitazione…”, capisci? Il diritto di proprietà prevaleva. Questo rimanda a un ordine culturale e valoriale antichissimo, riscontrabile anche tra rappresentanti del popolo, giuristi, attrezzati anche dal punto di vista culturale».
Noto una tendenza a polarizzare rispetto a questioni così delicate, c’è una fragilità diffusa rispetto agli ostacoli dell’esistenza e l’idea che il dolore spesso non sia un fatto superabile e momentaneo. In questo contesto l’uomo appare debole e disorientato, tu come la vedi?
«Lo penso anche io. E credo che per i giovani l’educazione allo smacco sia un pezzo importante per la costruzione identitaria. Bisogna spiegare che si può essere anche sconfitti e provare un dolore nell’aspirazione a un obiettivo o nell’amore per una persona. Per i ragazzi è specifica, è lo smacco subito dall’affermazione di autonomia di una donna che ti è vicina, che pensi di amare o credi sia tua, come diceva Filippo. Ma nessuno è di nessuno e l’amore si svolge nella relazione positiva tra due persone, non nell’appartenenza. Sono davvero un po’ preoccupata per i giovani uomini, perché finché non riusciremo a condividere un altro modello annasperanno e saranno in difficoltà, e nei casi più gravi saranno presi da una sorta di panico, non riuscendo più a orizzontarsi. E’ un lavoro difficilissimo, ma va fatto. Perché di sicuro il processo di maggior acquisizione di forza e libertà delle donne non si fermerà in nessuna parte nel mondo».
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