Editoriali
L’Argentina ci parla dell’Italia, specchiamoci nel trionfo peronista
Toh, chi si rivede: i peronisti. Hanno stravinto le presidenziali argentine con il 48%, hanno conquistato la strategica provincia di Buenos Aires con il 51%. Non c’è neanche bisogno del ballottaggio, il liberal di destra Mauricio Macri va a casa già al primo turno.
Occhio a liquidare questa notizia come il risultato del voto in una terra lontana che poco ha da dire all’Italia. Perché da quelle parti è dal 1946 che hanno imparato come vincere dando risposte populiste – nella straordinaria capacità di articolazione politica che hanno i peronisti – alla richiesta di protezione, di assistenzialismo puro e d’illusione d’ascesa sociale di larghe fasce di popolazione impoverite e rissose, disposte a cedere porzioni di libertà in cambio della promessa d’uguaglianza, di benessere inteso come possibilità di consumare di più e (raramente) di meglio.
C’è molto da imparare a guardarsi nello specchio argentino. Dà suggestioni utili sul futuro possibile, su quel che stiamo diventando.
Il presidente Mauricio Macri, celebrato in gran fretta al suo trionfo quattro anni fa come l’eroe liberal capace di seppellire per sempre le ricette assistenzialiste e la retorica populista degli eredi del generale Juan Domingo Perón, è stato sconfitto da Alberto Fernández, l’ex braccio destro della rediviva Cristina Kircher. Lei, l’ex presidente che del peronismo radical ha fatto un’icona pop, non potendo correre anche questa volta alla presidenza perché vietato dalla legge, s’è inventata una candidatura per se stessa come vice del suo ex segretario, l’uomo tutto fare suo e del suo defunto marito, l’ex presidente Nestor Kirchner.
L’abile “Regina Cristina” ha vinto dicendo che farà in tempi di crisi, con l’inflazione oltre il 50%, quel che i suoi due governi precedenti hanno sempre fatto: forzare le leggi della economia – e anche quelle della logica formale – distribuendo sussidi, sovvenzioni, prezzi bloccati anche se le casse statali languono. Secondo uno studio dell’Università cattolica argentina, il 33,6% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e un bambino su tre ha sofferto la fame negli ultimi dodici mesi: i peggiori dati del decennio in quello che fu il granaio del mondo e che tuttora vive dell’export di prodotti agricoli.
Consapevole che non c’è ossigeno politico lontano dal pianeta peronista a Buenos Aires, Mauricio Macri per tentare di confermare il suo mandato cos’ha fatto? S’è preso come vice, per presentarsi con lui in tandem agli elettori, Miguel Ángel Pichetto, una vecchia volpe peronista, l’altro fedelissimo dell’ex presidente Cristina Kirchner. Per sperare di vincere, l’imprenditore ultraliberista ha imbarcato un vice che più statalista non si può. Il bello è che nessuno in Argentina si è scandalizzato per aver visto Pichetto saltare il fosso e schierarsi con gli ex nemici. Nessuno, allo stesso tempo, gli potrà rimproverare di non esser più peronista.
E come potrebbe, se il peronismo ha come caratteristica l’adattabilità alle convenienze del momento garantita dal suo essere tutto e il contrario di tutto, cangiante, capace di assumere senza sforzo le dimensioni e l’aspetto dell’involucro che lo contiene?
D’altra parte Alberto Fernández, con una vice che in realtà è il suo capo, non s’è forse presentato subito dopo aver incassato la nomina in coppia con Cristina, a deporre contro di lei in una causa penale per corruzione? In omaggio al vecchio detto: “Noi peronisti siamo come i gatti: quando sembra che ci stiamo azzuffando, in realtà, ci stiamo riproducendo”.
Le categorie della ragionevolezza saltano in aria nel caleidoscopio politico argentino, dove tutto si muove secondo le regole assai fluide dell’opportunità del momento. Perché la norma fondamentale è che non esiste la necessità della coerenza, né quella della lealtà. La politica gronda retorica sull’appartenenza ideologica, ma si misura solo sulla capacità di vincere. Costi le giravolte che costi.
Non è soltanto trasformismo. L’adattabilità peronista è un’arte politicamente assai più raffinata delle proprietà camaleontiche di un banale Conte 2. Si tratta di saper tenere l’universo mondo dentro un magma che tutto ingloba nel suo avanzare: militari filonazi ed ex guerriglieri guevaristi, liberisti ed antiliberisti, statalisti e attivisti pro libero mercato. Spesso gli uni contro gli altri armati. Senza che né gli uni né gli altri possano rimproverare al nemico interno di aver abbandonato la matrice iniziale che è inafferrabile, polimorfa, mitica. Cristina Kirchner l’ha rivendicato di recente: “Noi sappiamo tenere insieme abortisti ed antiabortisti”. Nessuno ha fatto una piega.
Clamoroso ancor più della vittoria di Alberto Fernández su Macri è il trionfo dell’ex pupillo di Cristina Kirchner, Axel Kicillof, sull’attuale governatrice della provincia di Buenos Aires, Maria Vidal, sostenuta da Macri. Quel distretto è un territorio grande più dell’Italia, in cui si concentra il 37% dell’elettorato e il 32,3% del pil nazionale.
Il quarantottenne Kicillof fu la stella luminosa dell’ultima fase del peronismo di sinistra, nel 2013 divenne il super ministro dell’economia con delega a quasi tutto. Ex ragazzino prodigio dell’università di economia di Buenos Aires, fino a quel momento famoso solo per una foto in costume su “Vanity fair” (a dimostrazione che l’addominale traverso esiste, si disse) passò in un baleno dai pomeriggi goliardici con l’amico Massimo Kirchner, figlio della ex presidente, al ruolo di consigliere personale di Cristina. “La tengo hipnotizada” si vantava con gli amici. Viene dalla militanza di sinistra nel gruppo universitario marxista eterodosso “Tontos pero no tanto”. All’economia lo spinse suo nonno, rabbino, che aveva imparato da solo il tedesco per poter leggere Marx senza traduzione. Kicillof è stato la mente prima, e il capriccioso esecutore poi, della nazionalizzione della industria del petrolio argentina, l’Ypf, che fino al suo arrivo era per buona parte della spagnola Repsol.
Ha già un acerrimo nemico: l’ex ministro del commercio Guillermo Moreno, l’incubo degli investitori esteri in Argentina. Moreno e la sua collezione di nomignoli (il Pistola, la Bestia, il Selvaggio, il Pazzo) è stato per dieci anni il potente uomo dei panni sporchi e il simbolo dei modi spicci del clan Kirchner al governo. Ha liquidato con un “putos de mierda!” la delegazione della Shell, ha causato una crisi diplomatica nel 2010 per insulti all’ambasciatore brasiliano Enio Cordeiro, è stato colto da una diretta tv mentre con l’indice e il medio della mano destra faceva il gesto del “ti taglio la testa” all’allora ministro dell’economia Martin Lousteau. E’ l’ex padrone dell’import export di Buenos Aires, il fustigatore degli imprenditori, lo sceriffo che ha tenuto in mano l’economia kirchnerista fino al 2012 mentre ai nuovi arrivati veniva bisbigliato: “Non ti mettere mai contro Moreno”. Violento nel linguaggio e creativo nelle trovate, è stato il protagonista di mitologiche missioni all’estero per portare “el ejemplo argentino en el mundo”. In Angola, allo scopo di mostrare dal vero le meraviglie dell’export argentino, Moreno andò con una comitiva di 359 persone più una nave carica di bovini vivi arrivati a destinazione stremati sotto gli occhi increduli degli ospiti africani. “El arca de Moreno” fu battezzata la trovata.
Kicillof chiese e ottenne da Cristina la testa di quest’ingombrante uomo di mano. Moreno, che con i Kirchner ha sempre avuto la fedeltà di un labrador – è forse l’unico peronista a non aver mai cambiato corrente in vita sua, uno dei pochi a non esser nemmeno sospettato di aver intascato un centesimo sottobanco (glielo riconosce pure Kicillof) il solo, a differenza di tutti i suoi scagnozzi, a non essersi mai trasferito in uno dei quartieri per soli ricchi che spuntano alla moda nordamericana nella Buenos Aires dei country club – non s’è ancora dato pace per quel voltafaccia.
Quando il 18 marzo del 2013, prima dell’investitura papale, Jorge Bergoglio ricevette l’allora presidente Kirchner nella residenza di Santa Marta, all’uscita Cristina raccontò in un bisbiglio che il papa le aveva chiesto notizie di chi? Di Guillermo Moreno. L’attenzione del papa per Moreno rimanda all’universo politico della Buenos Aires degli anni Settanta, quando l’allora padre Bergoglio, gesuita già influente, ebbe contatti con il gruppo cattolico peronista Guardia de Hierro. Lì militava la cattolicissima Marta Cascales, moglie di Moreno. E’ stata lei, la moglie, a convincere il ministro disarcionato in malo modo da Cristina a continuare a combattere in nome del peronismo delle origini mentre i maligni tutt’intorno sussurravano: “Non l’ha salvato nemmeno il papa”.
Cristina Kirchner, per conto suo, s’è premurata di umiliare il capo dei più potenti tra i suoi nemici interni già prima del voto. Ha fatto annunciare la candidatura di Kicillof al sindaco di Lomas de Zamora, Martín Insaurralde, uno di quelli che vorrebbero vedere Kicillof grigliato sulla brace. Cristina l’ha costretto a ingoiare il rospo e dare la notizia. Non è solo perfidia. E’ la necessità politica di far sentire subito a tutti chi nel carrozzone peronista tiene in mano il bastone del potere. Il messaggio è passato forte e chiaro. I luogotenenti locali hanno chinato la testa, hanno messo in moto la loro potente macchina raccatta voti e nella rabbiosa cintura operaia di Buenos Aires il fighetto Axel Kicillof ha superato il 51%. Non un miracolo, un capolavoro.
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