L’esplosione del mercato
Asse Trump-Netanyahu: è il petrolio il vero ago della bilancia

Per un Donald Trump che ambisce al Premio Nobel per la pace, è comprensibile che un attacco israeliano ai siti nucleari iraniani sia una pessima eventualità. D’altra parte, la Cnn ha buona ragione di credere che questo avvenga. Le sue fonti hanno intercettato manovre militari che lasciano presagire l’apertura di un nuovo fronte per le Idf. Conviene? In termini tattici, forse sì. In una guerra totale ai nemici di Israele, colpire il regime di Teheran vuol dire andare alla radice del problema. D’altra parte, l’operazione mostra da sempre handicap procedurali. Gli impianti di Fordow, Natanz e Arak sono costruiti a decine di metri sottoterra, corazzati da cemento armato e roccia. Per colpirli servono bombe “bunker buster”, trasportabili solo da bombardieri strategici B-2 o B-52, che Israele non ha. Com’è invece per gli Usa. Ma sono più gli impedimenti politici che dovrebbero dissuadere Netanyahu dal dare la suo green light. Facendo una valutazione di rischio, quant’è disposto a mettere in discussione il premier israeliano nel suo rapporto amicale con Trump, pur di mantenere compatta la maggioranza e così restare al governo?
Il petrolio è la chiave di volta
Il Dipartimento di Stato Usa si è detto disponibile a riprendere i colloqui con l’Iran. Un attacco israeliano lo forzerebbe ad andare in tutt’altra direzione. Trump sarebbe costretto infatti a prendere le parti di Israele. Ma aprire un nuovo fronte di guerra – dopo che non essere riuscito a chiuderne nemmeno uno – è l’ultima cosa che vuole. Con i dazi alla Cina e l’economia domestica ancora in affanno, The Donald non ha tempo di star dietro a chi maneggia fiammiferi vicino a una pompa di benzina. Ecco appunto la benzina, o meglio, il petrolio è la chiave di volta di questa faccenda. Gli analisti-colombe sostengono che l’Iran voglia il nucleare per fini militari sì – e comunque non solo anti-Israele – ma anche per ragioni civili. Così da accendere le luci e scaldare le case del Paese e arricchirsi dei proventi del greggio esportato. Tesi da dimostrare.
In ogni caso, un attacco di qualunque scala potrebbe indurre gli Ayatollah alla ritorsione di bloccare lo Stretto di Hormuz, chokepoint strategico per il transito di circa il 20% del petrolio globale commerciato via mare (circa 17-18 milioni di barili al giorno). Impedendo le esportazioni dell’Arabia saudita, degli Emirati, Kuwait, Iraq, Iran e Bahrain, si innescherebbe una dinamica speculativa, che farebbe schizzare il prezzo del greggio del 70-100% sopra i valori attuali (62 dollari), arrivando a 140-160 dollari al barile. Scenario drammatico, ma lo ricorda l’Oxford Institute for Energy Studies (Oies), già visto nel 1979, con la caduta dello scià a Teheran, e nel 1990, con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.
Il mercato esploso
L’esplosione del mercato è respinta a priori da Trump. Un po’ perché andrebbe a incidere sul mercato domestico finale. Banalmente l’operaio dell’Illinois pagherebbe la benzina come un consumatore europeo. Inoltre, lo stesso trivellare nell’Alaska si trasformerebbe in un’operazione antieconomica. Infine comprometterebbe quel piano strategico che i repubblicani hanno da anni in canna. Ovvero fiaccare il dominio dell’Opec. Sauditi, per quanto amici, per primi. Ma anche Putin. Ieri, Aleksandr Kozlov, suo ministro delle risorse naturali, ammetteva che le riserve accertate di petrolio russo dureranno appena per 26 anni. Al Cremlino resta quindi poco tempo per fare la voce grossa.
Schiacciare i prezzi del Brent
L’impegno di aumentare la produzione interna USA di 3 milioni di barili di petrolio estratti in più al giorno – oggi sono circa 13 milioni – è finalizzato a schiacciare i prezzi del Brent fino a 50 dollari. Tre volte in meno rispetto alle simulazioni dell’Oies! Questo va coniugato questo con le nuove sanzioni che, a sua volta, l’Europa vuole imporre proprio al petrolio russo. La misura dovrebbe prevedere il divieto per le compagnie assicurative di coprire il trasporto per nave per tutto il greggio che Mosca vende sopra i 50 dollari. La misura va decisa a livello di G7, quindi serve l’ok anche degli Usa. Ricapitolando, a prezzi bassi e poca riserva, si può indurre Putin a più miti consigli. Con un valore alto di mercato invece, il Cremlino può continuare a fare il prepotente. Questo per dire che è lecito che Netanyahu faccia il falco sul quadrante mediorientale. Ma con un occhio di riguardo al resto del mondo.
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