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L'azione è più importante delle parole
Attivismo Corporativo, il difficile equilibrio tra grandi promesse e realtà: una spada a doppio taglio?

Il 2020, anno in cui la pandemia ha sconvolto il mondo, ha segnato una svolta per l’attivismo corporativo. Le aziende sono state chiamate a rispondere con determinazione e proposito a conflitti sociali, ambientali e politici. La trasparenza e l’accountability aziendale, una volta un caldo conforto, sono diventate un’aspettativa e una necessità. Tuttavia, troppi proclami accattivanti si sono rivelati promesse vuote e il pubblico se n’è accorto. Pensiamo a come eventi specifici, come la pandemia di COVID-19 o l’assassinio di George Floyd, abbiano spinto le aziende a prendere posizione.
D’altro canto, alcune dichiarazioni di solidarietà verso il movimento Black Lives Matter o l’impegno per operazioni più ecologiche non hanno avuto un impatto duraturo. E il pubblico non ha dimenticato gli impegni presi nel 2020.
Riflettendo sul tema dell’attivismo corporativo, non posso non pensare a “La responsabilità sociale dell’impresa è aumentare i suoi profitti”, l’ormai classico saggio di Milton Friedman del 1970. Friedman sosteneva che l’unico scopo sociale delle aziende è massimizzare i profitti per gli azionisti. Tuttavia, viviamo in un’epoca in cui le aspettative sociali impongono alle aziende di fare di più: rispondere alle sfide ambientali e sociali, sostenere la giustizia sociale, fare la loro parte per cambiare il mondo e non limitarsi a generiche ma roboanti dichiarazioni di purpose, puntualmente disattese.
Questo cambiamento di scenario, da una visione centrata esclusivamente sul profitto a una visione più ampia che incorpora l’impegno sociale, mi ricorda un passaggio del romanzo “Moby Dick” di Herman Melville. Il capitano Achab è talmente ossessionato dalla caccia alla balena bianca, Moby Dick, da sacrificare tutto, compresi il benessere e le vite del suo equipaggio. In un certo senso, le aziende moderne si trovano in una posizione simile: perseguire i profitti a discapito di tutto il resto, o rischiare di perdere il loro “Moby Dick” per perseguire un obiettivo più grande, più etico?
Una ricerca condotta da RepTrak ci mostra che il pubblico globale preferisce acquistare beni e servizi da aziende che “rappresentano un proposito che riflette i loro valori e credenze”. Quasi due terzi (63%) dei consumatori globali tendono ad evitare quelle aziende che non lo fanno. È altrettanto interessante notare che le aziende con CEO dalla trasparenza adamantina su questioni di giustizia sociale, ambientale e politica hanno punteggi di reputazione più alti.
Il problema è che fare una promessa e agire su di essa non sono la stessa cosa.
Il filosofo tedesco Immanuel Kant, nel suo imperativo categorico, ci insegna che dovremmo agire solo secondo quella massima attraverso la quale possiamo allo stesso tempo volere che diventi una legge universale. In altre parole, le aziende dovrebbero agire non solo proclamando i loro valori, ma anche realizzandoli attraverso azioni concrete. Se gli imprenditori e i manager adottassero l’imperativo categorico kantiano, potremmo vedere un reale cambiamento, tangibile ed immediato, nel modo in cui le aziende affrontano le questioni sociali e ambientali.
L’attivismo da salotto, o “slacktivism”, è un fenomeno che si sta diffondendo. Questa forma di attivismo a basso impegno comprende azioni come la firma di petizioni online, l’acquisto da aziende “compra-uno-dona-uno”, o la condivisione di supporto su Instagram. L’attivismo da salotto può dare l’illusione di contribuire alla causa, ma in realtà si appoggia agli sforzi altrui senza creare un vero cambiamento.
Su questo punto, faccio mie le parole del poeta britannico W. H. Auden, che scrisse: “La poesia non fa nulla di utile”. In un certo senso, l’attivismo da salotto è la poesia del mondo dei social media: condivide emozioni, ma non realizza alcun cambiamento tangibile.
Nel primo trimestre del 2021, più della metà del pubblico globale ha affermato che è importante che le aziende rispondano a questioni sociali e politiche sia con azioni che con parole. Questo ci mostra che le promesse da sole non bastano: il pubblico vuole vedere le aziende agire in modo coerente con i loro valori dichiarati.
Per le aziende, la questione è equilibrata su un filo di lana: da un lato, c’è la necessità di rispondere alle aspettative del pubblico in termini di impegno sociale; dall’altro, c’è il rischio di perdere la fiducia del pubblico se le promesse non vengono mantenute.
Le sfide poste dall’attivismo corporativo mi ricordano il “Problema di Monty Hall”, un noto problema di probabilità ispirato a un gioco televisivo. In questo problema, il concorrente deve scegliere tra tre porte, dietro una delle quali si trova un premio. Dopo la scelta iniziale, Monty Hall, il conduttore del gioco, apre una delle due porte non scelte, dietro la quale non c’è il premio. A questo punto, il concorrente deve decidere se cambiare la sua scelta iniziale o meno. La soluzione del problema mostra che cambiare scelta raddoppia le probabilità di successo.
In un certo senso, le aziende si trovano di fronte al loro “Problema di Monty Hall“: devono decidere se mantenere la loro strategia tradizionale, focalizzata esclusivamente sul profitto, o cambiare e abbracciare l’attivismo corporativo, rispondendo alle aspettative sociali e ambientali. E, come nel problema di Monty Hall, scegliere di cambiare potrebbe rivelarsi la scelta vincente nel lungo termine.
L’analisi di RepTrak indica che il 30% del pubblico globale sostiene che l’azione è più importante delle parole. Questo porta alla luce l’importanza di un impegno reale e tangibile, al di là delle dichiarazioni di intenti.
Il poeta romano Orazio, nel suo “Ars Poetica”, affermava “Ut pictura poesis”: come la pittura, così è la poesia. Se applichiamo questo principio al mondo degli affari, potremmo dire “Ut actio, ita promissio”: come l’azione, così la promessa. Le parole delle aziende dovrebbero essere riflesse nelle loro azioni. Se le promesse non sono seguite da azioni concrete, rischiano di diventare vuote come una tela senza pittura.
E qui si pone un dilemma per le aziende: come conciliare l’attivismo corporativo con la loro missione principale, che è quella di creare valore per gli azionisti? La ricerca di RepTrak ci offre una risposta: le aziende che “rappresentano un proposito che riflette i loro valori e credenze” godono di una maggiore fiducia da parte del pubblico. Questo può tradursi in un vantaggio competitivo e, alla fine, in una maggiore creazione di valore.
Non possiamo non pensare alla teoria dei giochi, sviluppata dal matematico John Nash, che mostra come, in molte situazioni, l’interesse individuale e l’interesse collettivo possano coincidere. In un certo senso, l’attivismo corporativo può essere visto come un “equilibrio di Nash”: agendo nel miglior interesse della società, le aziende potrebbero anche promuovere il loro interesse a lungo termine.
Tuttavia, il passaggio da promesse a azioni non è un processo semplice. Richiede un impegno costante, una comunicazione efficace e un’accurata valutazione dell’impatto delle proprie azioni. Ecco dove strumenti come i software di monitoraggio della reputazione possono svolgere un ruolo fondamentale, permettendo alle aziende di capire come le loro azioni influenzano la percezione del pubblico.
La domanda finale che dobbiamo porci è: quale futuro vogliamo per le nostre aziende? Vogliamo che si limitino a perseguire i profitti, o vogliamo che svolgano un ruolo attivo nel risolvere le sfide sociali e ambientali del nostro tempo? La risposta a questa domanda determinerà il ruolo delle aziende nel XXI secolo.
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