70 anni di Minima Moralia
“Aveva ragione Adorno: tutta la vita umana oggi è merce”, parla Lucio Cortella
«Sono rimasto agganciato magneticamente al libro, giorno dopo giorno si rivela una lettura affascinante». Così scriveva Thomas Mann dei Minima Moralia di Theodor W. Adorno (1903-1969), pubblicati nel 1951 per i tipi di Suhrkamp. Nel settantesimo anniversario della sua uscita, questo classico della Scuola di Francoforte sconvolge per l’esattezza con cui demistifica l’ideale di vita piccolo-borghese, i suoi accessi di falsa coscienza, le sue pulsioni totalitarie. Ne abbiamo parlato con Lucio Cortella, uno dei massimi studiosi italiani del pensiero di Adorno, professore ordinario di storia della filosofia presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e presidente della Società Italiana di Teoria Critica.
In cosa consiste la portata rivoluzionaria dei “Minima Moralia”?
In primo luogo nell’idea che il processo di razionalizzazione di cui parla Weber, che poi Lukács sulla base di Marx aveva chiamato processo di reificazione, non investa semplicemente la sfera del mercato, del lavoro, del meccanismo capitalistico in senso stretto, ma la totalità dell’esistenza umana, fin nei suoi aspetti – quasi accidentali – inerenti alla vita quotidiana. Poi nel fatto che la filosofia morale non possa più essere dottrina della vita buona e della vita giusta, ma debba capovolgersi e occuparsi della vita offesa, dell’umiliazione, dello stravolgimento dell’umano. Ecco l’idea di Adorno secondo cui la verità non può più essere affermata positivamente: non possiamo più parlare positivamente della vita buona e del bene, ma solo negativamente, cioè in modo critico. Nella costellazione contemporanea l’esistenza è stata stravolta così tanto da stravolgere la stessa filosofia morale, che non a caso Adorno chiama «triste scienza», una scienza che deve elaborare un lutto: il fatto che l’umano è andato perduto. Un terzo elemento di novità è lo straordinario stile aforistico adorniano, che egli recupera da una tradizione che era molto ben presente nella filosofia tedesca, da Nietzsche, a Kraus, a Benjamin, ma a cui conferisce anche una giustificazione teorica: non si può più fare filosofia come scienza della totalità e la forma aforistica consente alla filosofia di occuparsi del particolare senza pretese totalizzanti.
In uno dei passaggi più affascinanti dei “Minima Moralia” Adorno afferma che «sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza». L’idea di concepire l’amore come il superamento di ogni gerarchia, come il rifiuto della polarità di dominio e sottomissione, dà la misura della forte carica libertaria e antiautoritaria del suo pensiero.
Questo passo si potrebbe inquadrare in uno dei grandi temi della riflessione filosofica di Adorno: la critica della soggettività moderna nella sua versione individualistica. Quel soggetto per così dire padrone di se stesso, che si afferma poi nel processo economico portando avanti i propri interessi anche a scapito degli altri, ha dentro di sé l’elemento della violenza, non solo nei confronti degli altri ma anche di se stesso. È un soggetto coattivo: per forgiarsi questa corazza, questa natura forte, esso ha dovuto subire un processo di violenza. La critica di questo soggetto va verso lo smantellamento di tale corazza. Adorno intende al tempo stesso criticare e salvare l’individuo. Nel momento in cui l’individuo è diventato una corazza fredda che autoafferma se stessa, l’amore si incarica di indebolirlo: la salvezza dell’individuo, infatti, passa attraverso il suo indebolimento. Quanto più l’individuo si rafforza e diventa autoritario, coattivo, violento, tanto più perde la sua vera natura individuale.
Nella stessa meditazione l’amore viene definito come «la capacità di avvertire il simile nel dissimile». È una visione alternativa a quella dell’identity politics, che vuole le culture e persino le etnie come unità rigide e non conciliabili. I concetti di diversity e di alterità radicale cedono il posto alla volontà di specchiarsi nell’altro, il semplice multiculturalismo cede il posto al dialogo e all’interculturalità.
Questo è indubbiamente un altro grande tema adorniano e dell’intera Scuola di Francoforte anche nelle sue manifestazioni successive, da Habermas a Honneth. È l’idea che la nostra natura di individui si formi attraverso il confronto e il riconoscimento con l’altro: noi non siamo liberi nonostante l’altro ma grazie all’altro. C’è un altro passo nei Minima Moralia in cui si dice che l’umano sta nell’imitazione e che questo elemento mimetico è addirittura la forma elementare dell’amore. Siamo umani quanto più ci rispecchiamo nell’altro, quanto più in questo rispecchiarci nell’altro gli siamo debitori, quanto più siamo riconosciuti e riconoscenti nei confronti dell’altro. La concezione adorniana dell’individualità consiste dunque nella solidarietà. Un individuo è tale solo nella solidarietà con gli altri.
In un altro passaggio dell’opera si afferma che il progressivo abbandono delle formalità nelle interazioni tra gli individui e il diffondersi di un registro forzatamente confidenziale reca in filigrana “il tono del comando”. Viene in mente quell’atmosfera spigliata e giovanilistica tipica di molti contesti aziendali, che rafforza paradossalmente i rapporti gerarchici e occulta le condizioni di sfruttamento.
Ecco un aspetto interessante del pensiero di Adorno, che è stato talvolta anche criticato: questa sorta di nostalgia verso l’età aristocratica o l’età della prima borghesia, a cui egli contrappone la fase contemporanea del capitalismo sfrenato e di una borghesia che ha ormai perduto anche i suoi vecchi ideali. Adorno ritiene che anche in quelle forme aristocratiche e inevitabilmente autoritarie di società precedenti vi fosse in fondo un elemento di verità, di giustizia che la società contemporanea ha perduto. Si tratta dunque di guardare a quei vecchi privilegi con un’ottica nuova e diversa. Non si deve rinunciare ai grandi ideali borghesi della libertà e della giustizia, ma farli valere contro l’attuale deformazione della libertà e della giustizia. E quindi riprendere in mano quelle vecchie idee e farne elemento critico nei confronti della costellazione contemporanea.
Particolarmente lungimiranti sono le riflessioni di Adorno sulla decadenza della critica delle arti, quando annota che la gloria degli artisti «è assunta in tutto e per tutto a funzione di uffici di propaganda debitamente remunerati». Settant’anni dopo la critica si mostra sempre più stanca, incapace di sostenere le ragioni dell’estetica contro le ingerenze dell’industria culturale.
È questo un importante motivo adorniano, già sviluppato nella Dialettica dell’Illuminismo: il fatto che la cultura si sia trasformata in industria. Il capitalismo non si afferma più solo nei processi brutalmente economici o finanziari ma anche in quelli culturali, e viene perduta quella che Adorno chiama l’assoluta unicità dell’opera d’arte. Egli contesta il fatto che le opere d’arte possano essere paragonate sulla base del loro valore semplicemente economico e monetario. Se questo accade l’arte è perduta, poiché essa si dà solo nella misura in cui mantiene la sua assoluta incomparabilità. Ecco cos’è l’industria culturale: la perdita dell’unicità e dell’incomparabilità dell’opera d’arte. L’arte diventa una merce che vale tanto quanto altre merci e può essere scambiata con esse e confrontata. Ritorna il grande tema hegeliano della fine dell’arte anche se entro coordinate profondamente diverse.
L’impegno sociale sembra essere il tratto prevalente dell’arte contemporanea. Eppure questa dimensione pedagogica appare strumentale alle esigenze di un capitalismo razionalizzante, che pretende che anche l’arte aderisca a degli scopi e diventi socialmente funzionale. A questo proposito sono interessanti le critiche di Adorno all’idea che la dignità di un’opera dipenda dalla dignità dei temi che tratta, e che «una rappresentazione della battaglia di Lipsia valga di più di una seggiola vista di sbieco».
Adorno è sempre stato un critico dell’arte impegnata e su questo ha polemizzato con Lukács e soprattutto con Brecht. Egli non condivide l’idea che l’arte debba avere un’istanza pedagogica, che debba in qualche modo formare le masse e la società. Potrebbe dunque essere critico nei confronti della tendenza dell’arte di oggi a diventare pedagogia e a mandare messaggi. Per lui l’arte è essenzialmente denuncia delle deformazioni. Pensiamo a quanto importante sia per Adorno la musica contemporanea, soprattutto nella sua variante schönberghiana e berghiana: una musica intesa essenzialmente come dissonanza. Nella dissonanza la musica mostra la disgregazione della totalità, diventa critica della reificazione invece che l’ annuncio di qualcosa di buono. Egli ritiene che anche nelle forme musicali più astratte vi sia un elemento di verità e che questo debba mostrarsi attraverso le crepe dell’arte. L’arte non dev’essere un’enunciazione di grandi ideali, né tantomeno pedagogia nei confronti della società ma essenzialmente critica della reificazione.
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