Istituti di credito americani, qual è lo stato di salute vero? In questa crisi solo apparentemente localizzata, esiste un vago senso di già visto, di già vissuto. Con l’acquisizione di First Republic Bank ad opera di JP Morgan, l’FDIC (agenzia con funzioni di amministrazione del fondo interbancario, e poteri di risoluzione) avrebbe – nelle parole di Jerome Powell – stabilizzato il sistema, e posto un argine a quella crisi di fiducia che in poco più di due mesi ha messo in ginocchio tre istituti finanziari di medie dimensioni.

E va compresa l’anatomia di questa intricata selva di oltre cinquemila regional and community banks, se si vuole comprendere la natura dell’impasse. Istituti di credito con asset al di sotto dei cento miliardi, non di rado con una sovraesposizione verso il mercato immobiliare di tipo commerciale: estremamente volatile, e particolarmente esposto al rialzo dei tassi. La defunta SVB, per esempio, e la sua attività quasi esclusivamente al servizio dei fondi di venture capital. Signature Bank, anch’essa con una non risibile esposizione all’universo del venture e dell’immobiliare. E soprattutto – vera radice della crisi – un impressionante squilibrio in favore dei depositi non assicurati (al di sopra dei 250 mila dollari) in rapporto alle altre fonti di funding.

La percezione di vulnerabilità di tali istituti è venuta radicandosi negli operatori con la diffusione pubblica delle ingenti perdite sui portafogli obbligazionari a lungo termine (costituiti in larga parte da titoli emessi dal Tesoro, severamente impattati dall’aggressivo rialzo dei tassi). La rapida fuga di depositi ha obbligato numerosi istituti a vendere in perdita, nell’intento di reperire la liquidità necessaria a onorare le richieste.

Il mercato azionario ha completato l’opera, letteralmente massacrandone i titoli: l’indice KBW delle banche regionali ha bruciato oltre il trenta per cento da inizio anno. In fumo le capitalizzazioni di FRB, PacWest, First Horizon, Zions, Charles Schwab, Citizens Financial, Fifth Third, con cali in alcuni casi di oltre il 60 per cento.
E va compreso pure il ruolo di JP Morgan: banca sistemica, oseremmo dire – con eretica licenza – quasi di Stato. Con oltre 3.7 trilioni in asset, 400 miliardi di capitalizzazione (dieci volte Intesa, per capirci), 15 per cento dell’intero mercato dei depositi (circa 17 mila miliardi).

Con conflitti di interesse sui quali sarà forse opportuno, in futuro, fare luce. Con il suo imperituro CEO, Jamie Dimon, signore assoluto di Wall Street. Nella vicenda FRB Dimon ha ritrovato se stesso, replicando l’impresa del 2008 con Washington Mutual: vestendo una volta di più i panni di servitore dello stato, e in pari tempo acquisendo per la sua banca attivi che le varranno, a tendere, oltre 500 milioni di contributo sugli utili. Il tutto protetto da una garanzia federale fino all’80 per cento delle eventuali perdite. Profitable patriotism: con entusiastico plauso dei grandi gestori hedge Bill Ackman e Nelson Peltz, e con buona pace della furente Elizabeth Warren.

Eugenio Brunelli

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