Il saggio di Tomaso Montanari
Cacciamo i mercanti dal Tempio: i luoghi di culto o inaccessibili o messi a profitto
«Vi fu un tempo in cui io mi recavo ogni giorno in una chiesa perché una ragazza di cui ero innamorato vi rimaneva inginocchiata a pregare mezz’ora tutte le sere e potevo contemplarla in pace». Così Franz Kafka (Dialogo con il devoto e con l’ubriaco) nella traduzione di Giorgio Zampa. Questo brano mi è tornato in mente mentre leggevo Chiese chiuse di Tomaso Montanari (Einaudi, pp. 143, dodici euro), una radiografia impietosa del pessimo stato in cui versa il nostro patrimonio storico e artistico. Una ferita dolorosa, il cui sangue scorre invisibile e silenzioso nelle segrete intercapedini della coscienza collettiva. Al punto tale da poter rinverdire oggi, qui ed ora, almeno nelle anime più inclini, il classico, supremo e insuperabile, lamento petrarchesco: «Italia mia, benché ’l parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,/ piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali / spera ’l Tevero et l’Arno, / e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio».
Dati alla mano, migliaia di chiese restano abbandonate, inaccessibili, oppure visitabili soltanto a pagamento. Dobbiamo ammettere che quest’ultima perniciosa consuetudine non è soltanto nostra: da Maastricht a Dublino, da Anversa a Liverpool, non si contano le cattedrali gotiche trasformate in biblioteche e ristoranti, piste di skateboard e nightclub. Ma certo nel Bel Paese, culla dello spirito occidentale, madre dell’Europa, la situazione pare spesso assai desolante. Gli edifici sacri, lasciati senza custodia, vengono brutalmente saccheggiati delle loro preziose reliquie, «carteglorie, turiboli e navicelle, pissidi e calici, aspersori e secchielli, patene e ampolle, croci astili e candelabri…» chiosa lo storico dell’arte, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, le quali finiscono quasi sempre per essere rivendute in Rete (la Basilica di Santa Maria Salome a Veroli, in Ciociaria, è soltanto una di queste cave di refurtiva a cielo aperto). Montanari parla giustamente di “ecatombe culturale”, evocando da par suo il fantastico e purtroppo assai realistico scenario: «Squarci nei tetti, scrosci di acque piovane, montagne di guano di volatili: e infine di schianto, i crolli».
I mercanti, fuori e dentro la Chiesa, egli sostiene, Nuovo Testamento alla mano, sono tornati nel tempio, nonostante la presenza severa e ammonitrice e lungimirante di Papa Francesco. E purtroppo fanno affari d’oro. Le chiese vengono cedute in affitto a enti privati o pubblici che le utilizzano quali prestigiose “location” per eventi e matrimoni (l’abbazia di San Galgano, immortalata da Andrej Tarkovskij, il monastero di San Zeno a Pisa, la chiesa dei Santi Tommaso e Prospero a Certaldo). Nel 2014 Santa Maria Novella, a Firenze, ospitò nel Cappellone degli Spagnoli una cena della banca Morgan Stanley. Ma forse l’esempio più clamoroso resta la Certosa di Trisulti, prima ceduta al Dignitatis Humanae Institue, associazione fondata e guidata da Benjamin Harnwell, con Stephen Bannon e Donald Trump sullo sfondo, poi fortunatamente restituita allo Stato Italiano.
Le mura entro le quali un tempo i monaci si radunavano in preghiera possono diventare persino autofficine: è accaduto davvero alla Madonna della Neve a Portichetto Luisago, a Como. Oppure, dopo il crollo, non vengono più ricostruite (San Giuseppe dei Falegnami a Roma, a due passi dal Colosseo). I terremoti hanno dato il colpo di grazia: Camerino e Amatrice lo dimostrano. L’Aquila resta ferita. Diverse chiese in Emilia Romagna sono ancora impraticabili. Napoli, soprattutto, il fiore più dolce nella sua bellezza esposta e strafottente, dopo il sisma antico del 1980 (non è un refuso, ci stiamo riferendo proprio a più di quarant’anni fa), continua a versare in agonia perenne. Qui l’elenco del professore, triste, minuzioso e malinconico, dei monumenti ecclesiastici ancora fuori uso, luci spente nell’infinita notte italiana, potrebbe sembrare perfino scanzonato, se non evocasse un mondo perduto per sempre: «Sant’Agostino alla Zecca, San Giorgio dei Genovesi, la Scorziata, San Giovanni Battista delle Monache e Santa Maria della Sapienza, Santa Maria delle Grazie e Sant’Aniello a Caponapoli, San Giacomo degli Spagnoli e Santa Maria in Vertecoeli, Santa Maria in Cosmedin e Sant’Antonio in Tarsia. Per non parlare dei Girolamini…».
Tomaso Montanari non si perde in ciance. Al contrario, dopo aver esaminato, a ingranaggi scoperti, con acribia e passione, le carte burocratiche, indica una strada concreta da percorrere: «Se la conoscenza deve guidare una ‘politica delle chiese antiche, un primo passo pratico da fare sarebbe trasferire il Fondo edifici di culto e la sua dotazione economica dal ministero dell’Interno a quello per i Beni Culturali». Tuttavia lo scarto più vertiginoso di questo pamphlet, al tempo stesso amaramente sconsolato e lucidamente propositivo, ci sembra essere quello posto in essere nell’ultimo capitolo, intitolato Le chiese e il Vangelo, nel momento in cui, agganciato ai Sinottici (Marco 13, Matteo, 24, Luca, 21), l’autore si affranca dal rischio di una visione estetica sui marmi antichi, rivendicando piuttosto la costruzione di “un altro sguardo”, rivolto al futuro e alle persone, ben consapevole della vanità che potrebbe avere la pura e semplice conservazione del passato: «Guardando le pietre dobbiamo vedere non solo le pietre: ma i corpi vivi, i soli che conferiscono a quelle pietre inanimate la loro bellezza».
Come non ripensare a don Lorenzo Milani, non a caso citato spessissimo, che da giovane voleva fare il pittore, il quale in un articolo del 15 dicembre 1950 pubblicato su Adesso, la rivista di don Primo Mazzolari, dichiarò la propria simpatia verso un gruppo di ragazzi che appoggiavano “sguaiatamente” la bici sulla parete di un grande affresco («riprodotto anche sul Venturi») all’interno di un palazzetto vuoto? Il che non gli impedirà di accompagnare i suoi scolari nella cappella degli Scrovegni a Padova affinché conoscessero le meraviglie di Giotto.
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