Con la mostra “Canova. Eterna bellezza” (9 ottobre 2019 – 15 marzo 2020), a cura di Giuseppe Pavanello, il Museo di Roma a Palazzo Braschi torna a occuparsi del grande scultore veneto. Lo fa con più di 170 opere tra bozzetti, gessi, marmi e dipinti di Antonio Canova, degli artisti suoi contemporanei e dei maestri antichi, a cui si aggiungono 30 fotografie dei suoi marmi firmate da Mimmo Jodice e molto altro ancora. Questa preziosa mostra, realizzata in collaborazione col Museo Canova di Possagno e l’Accademia Nazionale di San Luca, nasce con un duplice intento: da una parte ricostruire il rapporto di Canova con Roma, città in cui visse, con brevi interruzioni, per circa quarant’anni; dall’altra indagare quella complessa rete di consonanze e dissonanze che lo lega all’arte antica – vediamo per esempio gessi del Fauno Barberini, del Gladiatore Borghese, dell’Apollo del Belvedere – e agli artisti della sua epoca, da Peyron a Mengs a Batoni. La fortuna critica di Canova (1757-1822) ha seguito un itinerario curioso. Dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi Settanta del Novecento la sua opera è stata tenuta quasi ai margini, guardata con sospetto, spesso ostracizzata. I romantici vedevano in lui la quintessenza dell’accademismo, i crociani attribuivano ai bozzetti un primato sulle opere finite, ai marxisti – con l’eccezione di Argan – sembrava un reazionario. Comune a queste letture, provenienti da ambienti culturali tutt’altro che omogenei, era appunto un’errata comprensione sia dei rapporti di Canova con l’arte classica che del suo ruolo nello spirito del tempo. Chiarire questi rapporti può restituire di lui una visione nuova. Può dischiuderci l’immagine di un artista dialettico, antidogmatico, la cui opera è percorsa da tensioni verso un altrove appena conoscibile.

Ciò si esprime innanzi tutto nel suo legame col Neoclassicismo. Il principio fondamentale di questo movimento è forse quello enunciato dal suo massimo teorico, J. J. Winckelmann, nella Storia dell’Arte presso gli antichi: «La bellezza è come l’acqua, tanto più buona quanto meno ha sapore». Vediamo applicato questo principio, ad esempio, nelle opere di Bertel Thorvaldsen, di cui in mostra troviamo il gesso del “Busto del Cardinale Ercole Consalvi”. In linea con il dettato winckelmanniano, le figure di Thorvaldsen si astengono dal mostrare «lo stato dell’animo e il sentimento delle passioni», rifuggono l’emotività. Nel loro caso non è improprio parlare di freddezza: il fascino ieratico che le contraddistingue deriva dalla loro frontalità, dall’indeterminatezza degli sguardi, dai panneggi nitidi e affilati. Sempre secondo Winckelmann il bello ideale deriva «dalla scelta delle più belle parti e dalla loro armonica unione in una figura», e non dal dialogo con un modello reale già esistente in natura, riletto dall’immaginazione dell’artista. Canova si pone agli antipodi. Le sue opere migliori non soffocano il carattere individuale, ma lo esaltano, ne mettono in luce l’umanità e la corporeità. La sua statuaria più riuscita rifiuta di ipostatizzare il mondo classico, di portarlo di peso nel presente. I motivi del ricordo e della nostalgia hanno per lui un valore utopico: colgono del passato le possibilità inespresse, inascoltate, invece di celebrarlo in modo dogmatico. È in questo senso che va letta la frase di Stendhal secondo cui Canova non copia i greci ma inventa, come loro, una nuova bellezza. Luigi Coletti si spinse del resto anche oltre: disse che Canova ha poco in comune con il Neoclassicismo, che il suo linguaggio, al di là delle apparenze, guarda altrove. L’esempio forse più eloquente di tutto questo è nell’“Amore e Psiche giacenti”, ricordato in questa rassegna da una copia realizzata grazie a una scansione 3d. La sua struttura è un vero campo di forze: una costruzione chiastica, innumerevoli piani, un intreccio vertiginoso di tensioni e antinomie. I conflitti e le opposizioni echeggiano i tumulti dei due personaggi, strappano il racconto alla sua dimensione arcaica e lo rendono vivo. Quasi tutti i critici credettero di vedere in opere come questa una tenerezza graziosa, una sensualità repressa e contemplativa. E non seppero cogliere il tema più autentico che le accomuna: un erotismo violento, vivido, palpitante. Non è un caso che il Museo Canova di Possagno sia uno dei primi in Italia in cui si verifica la sindrome di Rubens, che predispone i fruitori delle opere ad uno stato libidico.

Non si deve tuttavia leggere l’erotismo canoviano in chiave dionisiaca. Esso si nutre, al contrario, di una dialettica di purezza e ardore, di introversione e passionalità. La limpidezza dello sguardo non spegne la sensualità ma al contrario la rende più nitida e viva, in una sorta di pathos della delicatezza. Quando C. L. Fernow (1763-1808), il più accanito detrattore del Canova, stroncò la “Maddalena penitente” definendola «una fanatica malridotta e devota» con un «seno misero e tutt’altro che attraente», mostrò di aver completamente frainteso lo spirito dell’erotismo canoviano. Per Fernow la Maddalena ideale dovrebbe evocare «una natura lussuriosa» di cui la statua canoviana, che vediamo in mostra, non ha «niente, nemmeno una traccia». Eppure quella canoviana non è una sensualità ammiccante o maliziosa. Nella “Maddalena”, in “Venere e Adone”,  nelle “Grazie” l’eros si esprime nella negazione dell’autoritarismo: un po’ come avviene nella Ottilia di Goethe. Coesistono senza soluzione di continuità il nudo greco e il cristianesimo del Cantico dei Cantici, riconciliato con il mondo del desiderio. La tendenza canoviana a esaltare il carattere si esprime anche nei due “Pugilatori”, di cui vediamo esposti i gessi. Fu sempre il Fernow a stigmatizzare le «pieghe e rotoli adiposi» dei loro corpi, che secondo lui contraddicono «la purezza della forma ideale». Ed è invece proprio qui la grande novità dell’arte canoviana, il cui dialogo con la grecità attinge al reale e all’individuale.

Giulio Laroni