Il Fatto Quotidiano raccoglie le firme a sostegno di un appello al Legislatore perché intervenga per porre rimedio alla sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. I promotori si dolgono per avere io definito quell’appello “tecnicamente e materialmente eversivo”, e mi spiegano che è semmai la Mafia ad essere eversiva. Dio solo sa cosa avranno voluto dire, parole in libertà e senza costrutto. Io ribadisco che altro è criticare una sentenza della Corte Costituzionale, operazione del tutto legittima ed anzi insindacabile, altro è chiedere che il Legislatore intervenga per sterilizzare (bando alle ipocrisie, suvvia!) i temuti effetti di quella sentenza, che secondo la manipolatoria propaganda dei suoi detrattori sarebbero devastanti per il contrasto dello Stato alla Mafia. Rendersi promotori di una simile iniziativa denunzia un totale disprezzo per il ruolo supremo che la Costituzione ha affidato al magistero della Consulta. Resta da stabilire se questo avvenga per analfabetismo istituzionale e costituzionale, o per consapevole e compiuta cultura antidemocratica, ma il risultato non cambia: tecnicamente e materialmente si tratta di una idea eversiva dell’ordine costituzionale, nel senso che oggettivamente presuppone una sovversione degli equilibri disegnati dalla nostra Carta Costituzionale.

La Consulta è il Giudice delle Leggi. Ad essa è attribuito un potere formidabile e senza eguali, è cioè quello di abrogare una legge votata legittimamente dal Parlamento in quanto giudicata non conforme alla nostra Costituzione. È una abrogazione – come si dice tecnicamente – efficace “ex tunc”, cioè da quando la legge è stata promulgata: più che abrogare la legge, la incenerisce, quella legge deve intendersi come se non ci fosse mai stata, si adegui la Giurisdizione, si adegui l’Amministrazione dello Stato, si adegui – figuriamoci – innanzitutto il Legislatore (l’Opinione Pubblica, deo gratias, non entra nemmeno in classifica). Si può rimediare ad una decisione della Corte che non si condivide? Certamente: si promuova una modifica della Costituzione che fissi un principio incompatibile con quello affermato dalla sentenza criticata, ed è presto fatto. Esiste una maggioranza qualificata che abbia questa intenzione? Si accomodi, auguri. Mettete mano, se ne avete il coraggio, all’art. 27 della Costituzione (finalità rieducativa della pena), invocando la cui violazione la Corte ha di fatto abrogato il principio di ostatività predeterminato per legge. Ma fino a quel momento, chiunque istighi il legislatore a rimediare, a porre un freno, ad attutire – e nel non detto, a vanificare – l’impatto del principio solennemente affermato dalla Corte, sta portando – ripeto, inconsapevolmente o intenzionalmente, il risultato non cambia – un attacco velenoso al cuore del nostro sistema istituzionale e democratico. Di fronte ad un principio affermato con tanta nettezza, al Legislatore non resta che starsene zitto e buono, e l’ultima cosa che si possa immaginare che accada (salvo che non sia la stessa Corte a chiederlo, ma questa è altra storia) è che si metta a scarabocchiare – as usual – improbabili nefandezze giuridiche, linguistiche e sintattiche, per “rimediare” alla irresponsabile leggerezza di quegli sprovveduti della Corte Costituzionale, che pontificano ignari della realtà, della trincea, e bla bla bla.

Cosa poi dovrebbe mai fare il Legislatore, istigato da questi nuovi sanfedisti? Il Manifesto travagliesco (impreziosito dalle solenni citazioni dei vari Gratteri, Di Matteo eccetera) lo dice a chiare lettere: non lasciare il giudizio sulla concedibilità del permesso “ai semplici Giudici di Sorveglianza”. Non so se qui si sconti la poca padronanza della lingua italiana, o se si intenda alludere ad una supposta semplicità d’animo francescana, ad una certa sprovvedutezza, o a chissà quale altro limite umano e professionale di quei Magistrati, ma la domanda è: cosa c’è che non va nei Magistrati di Sorveglianza, signori promotori del Manifesto? Sono magistrati né più nè meno – anche se a voi suonerà come una bestemmia –  di quanto lo siano Gratteri, Di Matteo e gli altri 9000 che hanno vinto lo stesso concorso. Perché mai i “semplici Magistrati di Sorveglianza” sarebbero corruttibili, ricattabili, minacciabili, più di quanto non possano esserlo il PM che indaga, il Gip che cattura, i giudici del Tribunale e della Corte di Appello chiamati a condannare o ad assolvere il Mafioso? Per non dire che quei “semplici giudici di Sorveglianza” nel dover accertare, secondo quanto sancito con nettezza dalla vituperata sentenza della Corte Costituzionale, il parametro della interruzione dei rapporti dell’ergastolano richiedente il permesso con la cosca di appartenenza, formuleranno quel giudizio sulla base non del comportamento carcerario, che qui non c’entra nulla, né di una loro epidermica sensazione, ma delle informazioni che riceveranno dalla Polizia Giudiziaria, dalla Direzione Nazionale Antimafia, dalla Procura Distrettuale Antimafia territorialmente competente, e chi più ne ha più ne metta. Altro è chiedere – come fa con molto garbo, e con tutt’altro senso delle regole e delle Istituzioni, il (semplice?) Magistrato di Sorveglianza romano Marco Paternello sul Corsera di qualche giorno fa- che si rafforzino le dotazioni strutturali dei Tribunali di Sorveglianza. Questo noi penalisti lo chiediamo da anni a prescindere, e questo dovrebbero limitarsi a chiedere le persone serie, che abbiano a cuore ad un tempo la sicurezza sociale e la tenuta delle nostre istituzioni democratiche: tutto il resto è propaganda di bassa lega.

Gian Domenico Caiazza

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